Abbiamo esaminato nel
precedente case study le diverse concezioni sul problema della visione delle
correnti emissioniste e immissioniste, abbiamo cercato di evidenziare i principi
regolativi e le tecniche sperimentali; infine abbiamo descritto quel processo
di strutturazione dell'ottica more
geometrico che portò alla definizione di una scienza della prospettiva in
grado di risolvere, sia pure in prima approssimazione, i problemi elementari di
localizzazione e di formazione delle immagini. Se però il processo di
geometrizzazione della visione costituiva da un lato uno strumento fecondo di
schematizzazione e di interpretazione quantitativa del fenomeno, dall'altro —
riducendo l'occhio a un punto e l'oggetto visto a un ente unidimensionale
definente la base del cono prospettico — veniva a porsi come una sorta di
ostacolo alla comprensione più completa del meccanismo della visione.
In questa sezione
affronteremo, pertanto, un diverso approccio al problema che porterà —
attraverso un processo di separazione tra aspetti fisici e fisiologici — a un
avanzamento nella spiegazione della visione altrimenti legata ai soli problemi
di prospettiva geometrica. Tale processo ha inizio con gli studi sulla
struttura dell'occhio condotti da Galeno di Pergamo (129-200 d. C.).
Le osservazioni
anatomiche di Galeno avranno una grande influenza in un ambiente culturale, il
mondo arabo, che per alcuni secoli sarà all'avanguardia in campo filosofico e scientifico.
Nel IX secolo, infatti, la maggior parte delle opere greche e latine di rilievo
vengono tradotte in arabo. Per quanto
riguarda l'ottica, gli studiosi arabi rielaboreranno con traduzioni e
commentari, la produzione fisica greca. Di questa acquisiranno la tendenza a
geometrizzare i problemi, a distinguere in essi gli aspetti fisici da quelli
matematici, arricchendone tuttavia i procedimenti razionali con contributi
originali, più strettamente legati all'indagine naturale sperimentale, in
particolare nel campo della fisiologia e del l'anatomia.
La teoria di Galeno
ammette l'esistenza di un «pneuma luminoso» che, provenendo dal cervello,
scorre lungo il nervo ottico e la retina, lascia la pupilla per interagire poi
con la luce esterna. Da questa interazione hanno origine le sensazioni che
entrano a loro volta nell'occhio, sollecitano il cristallino e ivi producono le
immagini che vengono infine trasmesse al cervello attraverso la retina. La
spiegazione è formalmente analoga alla teoria di Platone del «fuoco visuale»
emesso dall'occhio, combinato con il «fuoco diurno» presente nell'ambiente
esterno; essa è sorretta però da riferimenti concreti e da un reale tentativo
di adattare la teoria all'anatomia dell'occhio.
L'ipotesi galenica sul
meccanismo della visione, accettata per lungo tempo in tutto il mondo arabo,
viene ripresa da Al-Kindi (morto nell'873 ca.). L'occhio emanerebbe una forza
che, interagendo con gli oggetti illuminati, produrrebbe la sensazione della
visione. Questa interazione per Al-Kindi avviene tra i raggi emessi in tutte le
direzioni da ogni punto della superficie dell'occhio e i raggi che si propagano
in tutte le direzioni da ogni punto della superficie del corpo illuminato.
Quest'ultima assunzione, che corrisponde a un processo di elementarizzazione
dell'oggetto in punti luminosi, è di importanza fondamentale in ottica poiché
segna la rottura con quelle teorie greco-romane che, considerando la visione
come l'ingresso nell'occhio di forme coerenti, non potevano in alcun modo
spiegare il meccanismo di formazione delle immagini. Tuttavia questa ipotesi
viene solo enunciata da Al-Kindi; ripresa più di un secolo dopo da Alhazen e
rielaborata da Keplero porterà solo nel '500 a una spiegazione corretta e
completa della visione. L'ottica di Al-Kindi non introduce altri elementi nuovi
poiché in sostanza aderisce completamente alla teoria geometrica euclidea della
visione. Nella produzione di Al-Kindi va tuttavia sottolineato un altro
aspetto, diciamo metodologico, di grande interesse per l'influenza che esso
avrà nel tardo Medioevo nel problema della moltiplicazione delle specie: la
teoria di propagazione delle forze per raggi. Secondo Al-Kindi le stelle, i
magneti, il fuoco, il suono e anche alcune parole magiche irraggiano sugli
oggetti materiali circostanti un potere, una virtù che in qualche modo li
modifica. Queste «forze», che si propagano radialmente, permetterebbero la
spiegazione dei fenomeni naturali più diversi. E evidente che la luce, in questo
contesto, è la forma radiante per eccellenza e il suo studio viene perciò a
costituire il prerequisito indispensabile allo studio della natura.
Altri contributi notevoli
del X secolo sono quelli di Al Razi (865-923) e Al Farabi (morto nel 950),
sostenitori della concezione aristotelica. Ma di carattere di gran lunga più
importante è l'originale sintesi operata da Alhazen (ca. 9651039) il cui
contributo avrà un grande peso sugli studiosi del tardo Medioevo e del
Rinascimento. Pur conoscendo l'ottica di Euclide e di Tolomeo egli respinge
l'adattamento che la scienza del suo tempo, in particolare con Al-Kindi, aveva
operato della teoria dei raggi visuali. Partendo dalla constatazione che,
quando una luce particolarmente intensa colpisce gli occhi, l'osservatore
riceve una sensazione di dolore seguita dalla persistenza delle immagini,
Alhazen giunge alla conclusione che la luce deve essere un agente esterno che
penetra nell'occhio modificandone temporaneamente la struttura. Rovesciando le
spiegazioni correnti della visione l'autore rifiuta dunque la teoria dei raggi
visuali. Secondo questa concezione la visione avviene per emissione da parte
dell'occhio di un cono luminoso che ha per vertice l'occhio stesso e per base
l'oggetto. Per Alhazen al contrario, il fascio luminoso proviene dall'oggetto e
ha per base la pupilla. L'immagine osservata, che si forma per corrispondenza
punto-punto con l'oggetto, è unica poiché i nervi ottici sono incrociati ed
essa si forma sul cristallino anziché sulla retina. A meno del capovolgimento
delle immagini Alhazen dà dunque una spiegazione qualitativamente corretta del
meccanismo della visione in cui l'occhio acquista tridimensionalità. Per
Alhazen, così come per altri studiosi tardo-medievali quali Ruggero Bacone,
John Pecham (morto nel 1292) e Witelo, l'occhio è costituito da quattro tuniche
(sclera, cornea, uvea e retina) e da tre umori (acqueo, cristallino e vitreo)
(cfr. fig. 18). Nell'uvea, che si apre anteriormente a formare la pupilla, è
contenuto l'umor acqueo; la zona più interna dell'occhio è suddivisa in due
parti, una anteriore, che costituisce la lente cristallina, e una posteriore,
delimitata dalla retina, l'umor vitreo. Dal cervello si diparte un nervo cavo
che successivamente si suddivide in due rami che raggiungono gli occhi: sono i
nervi ottici che hanno il compito di trasmettere le sensazioni visive al
cervello. Alhazen, come dicevamo, individua nel cristallino la sede di
formazione delle immagini. Sia Vasco Ronchi che Giorgio Nebbia — e in realtà il
loro punto di vista appare assai credibile — interpretano l'origine di questo
errore sulla base del fatto che egli, conoscendo bene il principio della camera
oscura, se avesse individuato la formazione dell'immagine sulla retina ne
avrebbe dovuto giustificare in qualche modo il capovolgimento e ciò avrebbe
introdotto difficoltà non facilmente superabili [i]. Di grande importanza metodologica e concettuale
sono gli studi sulla rifrazione: Alhazen determina sperimentalmente l'angolo di
rifrazione r per l'aria, il vetro e l'acqua, in funzione di angoli di incidenza
i che fa variare di 10° in 10° e trova che il rapporto i/r non è costante, come
molti sostenitori di Tolomeo sembravano affermare. La variazione di r viene
spiegata sulla base delle ipotesi che la luce, in analogia con il comportamento
meccanico dei corpi elastici, modifichi la sua velocità nel secondo mezzo,
diminuendo nei mezzi più densi. In particolare, a essere modificata è la
componente del moto normale alla superficie di incidenza della luce [ii]. Alhazen conduce inoltre ampi studi sul
comportamento di specchi piani, convessi e concavi di forma diversa, sul potere
di ingrandimento di sfere e semisfere di vetro, sul funzionamento della camera
oscura.
2) Lux e lumen
Nel mondo arabo rilevanti
contributi allo sviluppo e al dibattito sulla scienza della visione giunsero
tuttavia anche dal versante più strettamente filosofico.
In particolare vanno ricordate le
concezioni di Avicenna (980-1037) e di Averroé (1126-98) sulla natura della
luce e dei colori, poiché questa fase del dibattito segna l'inizio della
distinzione tra lux e lumen,
le cui vicende sono legate a differenti interpretazioni del concetto di luce.
Avicenna infatti distingue la lux, o
«brillantezza» che si vede nel fuoco o nel sole (ossia la qualità luminosa
degli Oggetti che rende possibile il vederli tramite un mezzo interposto,
secondo la teoria aristotelica) dal lumen,
o «splendore», che sarebbe l'effetto della lux
sul mezzo e sui corpi circostanti.
L'attribuire maggiore
importanza al lumen o alla lux sarà fondamentale nello sviluppo
della scienza della visione ma non sempre è facile distinguere nettamente
questi due termini nelle opere degli scrittori medievali.
Già nell'opera di
Alhazen, contemporaneo di Avicenna, questa distinzione terminologica si
comincia a perdere, forse a causa dell'imprecisa traduzione in latino dei suoi
libri. Nella concezione di Alhazen si afferma l'idea del lumen come forma della lux.
Il collegamento fra lux e lumen implica però una modificazione
delle concezioni aristoteliche: la luce non è più uno stato del mezzo
necessario per la percezione dei colori ma una qualità degli oggetti luminosi
che è essa stessa percepita. Sorge dunque il problema di definire la natura
della luce (lumen) e del colore nel
mezzo. Questo problema acquisterà particolare importanza nel '600, quando il
concetto di lumen si staccherà
completamente da quello di lux e
comincerà ad assumere un significato fisico molto vicino a quello
contemporaneo. Nel Medioevo si era però agli albori di questo processo e del
pari rilevante era definire il concetto di lux.
Come possiamo interpretare questo concetto di lux che oggi non trova più posto nei manuali di ottica? Ronchi
individua nella lux una componente
concettuale fondamentalmente soggettiva e psichica. L'importanza di questa
sottolineatura è quella di considerare il processo della visione nella sua
unità soggetto-oggetto. In quest'approccio, che per Ronchi è appunto quello
degli antichi filosofi naturali, il ruolo del soggetto è ineliminabile perché
il soggetto è l'unico a percepire la lux.
In altri termini con il concetto di lux
si individuano gli aspetti soggettivi (psicologici) mentre con il concetto di lumen quelli oggettivi (fisici) di un
processo considerato unitario.
Lo sviluppo degli aspetti
della visione legati al concetto di lumen,
dovuto anche al prevalere, dopo Alhazen, delle correnti immissioniste, si
associa alla individuazione di un sostrato materiale per la luce, come
«oggetto» entrante negli occhi. L'autonomizzarsi del lumen rispetto alla lux
permetterà, attraverso lo specializzarsi della componente fisica dei processo
della visione, straordinari successi esplicativi. Tutto ciò però avverrà
attraverso la sottovalutazione, per un paio di secoli, di alcuni pur
fondamentali processi psicofisiologici che sono appunto quelli legati nel
Medioevo al concetto di lux.
Ritornando ad Avicenna
dunque, notiamo che egli, oltre a porre la distinzione tra lumen e lux, sottolinea
gli aspetti psicologici della lux e
svaluta quelli fisici del lumen a
forme o species immateriali. Ciò
avrebbe facilitato la ripresa della teoria della emissione di simulacri da
parte dell'oggetto, lasciando m secondo piano i contenuti specificamente
fisicomateriali dei simulacri stessi. Anche Averroè diede contributi importanti
a questo dibattito distinguendo tra esistenza spirituale ed esistenza corporea
della luce e dei colori: nell'anima questi avrebbero un'esistenza spirituale,
nei corpi trasparenti un'esistenza intermedia tra la spirituale e la corporea.
Queste interpretazioni della posizione aristotelica avranno grande influenza
quando i commenti di Averroè ad Aristotele si diffonderanno in Europa.
Il concetto di lux comincia, dunque, a denotare
caratteristiche formali dei corpi. Queste ultime vengono rivelate all'osservatore
per mezzo di simulacri, species, che nelle diverse interpretazioni sono
materiali o immateriali. La lux
quindi, diviene visibile per mezzo del lumen,
che così acquista il significato di species della lux. A questo punto la parte fisica della scienza della visione si
occuperà sempre più della definizione del lumen
inteso come species corporea, mentre quella filosofica inserirà il dibattito
sulla lux in quello della «metafisica
della luce».
Tra il 1100 e il 1200
vengono in gran parte completate le traduzioni latine delle principali opere
arabe e insieme a esse vengono restituite all'Occidente, in latino, anche le
fondamentali opere greche. Ciò avrà una fortissima influenza sul dibattito
filosofico e teologico, non privo di conseguenze per lo sviluppo dell'ottica.
Fino al XII secolo infatti, la tradizione prevalente in Europa era quella del
neoplatonismo, mediata dalla tradizione cristiana attraverso l'opera, tra gli
altri, di sant'Agostino (354-430). E proprio il tema agostiniano
dell'illuminazione divina a gettare le basi della futura «metafisica della
luce». Per Agostino, infatti, il mondo delle verità eterne può essere raggiunto
dall'anima solo se questa è «illuminata» da Dio. L'illuminazione divina dà luogo
a un processo di illuminazione indotta in cui l'anima «vede» le verità eterne e
attraverso queste ultime può giudicare ogni altra cosa. Questa concezione è
simile a quella plotiniana della creazione per emanazione, in analogia alla
diffusione della luce da una sorgente primaria. Tali tematiche sono sullo
sfondo dell'opera di Roberto Grossatesta (ca. 1168-1253) che assegnerà
all'ottica un ruolo particolare.
Un avvenimento di
fondamentale importanza culturale ha luogo ai primi del 1200 in Europa: la fondazione
dell'Università di Oxford (1214) in cui lo stesso Grossatesta assumerà un ruolo
di primo piano influenzando, tra gli altri, due studiosi francescani, Ruggero
Bacone e John Pecham.
Passiamo ora a esaminare
i contributi di Grossatesta all'ottica.
Egli conosce i testi fondamentali di
ottica geometrica ma non sembra avere notizia degli studi di Alhazen. Dalla
cultura araba tuttavia assorbe la concezione di un universo dominato da specie
che si propagano nello spazio e sono causa di ogni azione e di ogni moto.
Queste concezioni neoplatoniche, come si ricorderà, erano state diffuse nel
mondo arabo da Al-Kindi e vengono adottate e rielaborate, oltre che da
Grossatesta, da tutti gli studiosi di ottica tardomedievali.
La «metafisica della
luce» di Grossatesta si può schematizzare nella concezione che la lux è la forma corporea fondamentale e
il principio del moto: l'universo si è andato formando da un punto luminoso che
si è diffuso nello spazio dando poi luogo alle forme corporee secondarie. Anche
l'anima umana è una specifica manifestazione della luce, sebbene, per
raggiungere la conoscenza, debba essere allo stesso tempo illuminata da Dio,
sorgente di ogni luce.
Nell'universo di
Grossatesta le specie visibili, emanate dal sole, vengono a essere
necessariamente le specie privilegiate, le specie guida. Esse, in un mezzo
omogeneo, si propagano per traiettorie rettilinee obbedendo al principio di
economia, altrimenti si diffondono per angoli e per figure. L'ottica geometrica
è perciò la scienza fondamentale della natura perché tutti gli altri fenomeni,
di origine gravitazionale o magnetica, possono venir ricondotti a propagazione
di specie. Le leggi fisiche per Grossatesta seguono i principi di massima
semplicità e di simmetria: in ottica egli le applica alla riflessione e alla
rifrazione, arrivando in quest'ultimo caso a conclusioni non corrette poiché
ipotizza una relazione del tipo i (1/2) r.
Quest'ultimo risultato
rivela il fatto che all'esperimento viene assegnato un ruolo subordinato
rispetto a un'immagine del mondo fortemente imbevuta di idee regolative —
criteri di economia, semplicità, simmetria —. Cionondimeno, nella metodologia
scientifica di Grossatesta i dati osservativi sono indispensabili e la scienza
dell'ottica geometrica ne è l'esempio più completo: le osservazioni forniscono
i fatti (quia), la matematica gli
strumenti per capire le cause dei fatti (propter
quid).
La teoria ottica delle
specie visibili viene ripresa e ampliata da Ruggero Bacone, raggiungendo, nella
prima metà del XIII secolo, una nuova sintesi.
Bacone, discepolo di
Grossatesta e quindi erede della tradizione neoplatonica e matematizzante,
riprende infatti l'opera di Alhazen tentando un'unificazione sia con la tradizione
euclidea che con quella aristotelica e galenica. Egli sosteneva in particolare
che le species, generate da ogni punto dell'oggetto visibile, entrano
nell'occhio dell'osservatore e si adattano alla superficie del cristallino
nello stesso ordine dei punti del campo visivo dal quale sono state generate.
Fra i raggi provenienti dall'oggetto visibile tuttavia, Bacone trascura quei
raggi che incidono obliquamente sull'occhio poiché, indeboliti dalla
rifrazione, non stimolano a suo giudizio il potere visuale.
Tra le varie dottrine che
concorrono a formare la sintesi dell'ottica baconiana sussistevano forti motivi
di disaccordo riguardanti la natura e il meccanismo di propagazione della
radiazione responsabile della visione: per la tradizione aristotelica la
visione avveniva a causa di una trasformazione qualitativa del mezzo, Alhazen
ipotizzava l'esistenza di «forme» della luce e dei colori, Grossatesta, infine,
faceva appello alla dottrina della moltiplicazione delle specie. Bacone unifica
queste diverse concezioni identificando le forme di Alhazen con le species
neoplatoniche, attribuendo quindi a entrambe le stesse proprietà
fisico-matematiche; l'interpretazione aristotelica veniva invece fatta
intervenire nella spiegazione del meccanismo di propagazione delle forme.
Quest'ultimo avveniva non a causa di uno spostamento fisico del corpo ma a
causa di una propagazione delle «similitudini» in punti contigui del mezzo.
Rimaneva tuttavia un
altro punto da chiarire: se la visione avviene per immissione di species
nell'occhio, il concetto di «direzione della radiazione» non è facilmente
comprensibile dal momento che non vi sono ragioni sufficienti perché le species
seguano una direzione piuttosto che un'altra. Bacone ipotizza allora, come già
aveva fatto Alhazen, che anche l'occhio sia in grado di emanare species
secondarie che rendono, per così dire, il mezzo capace di fare da supporto alle
species primarie emesse dall'oggetto. La direzione della radiazione osservata
viene così determinata dalla direzione comune ai raggi entranti e uscenti.
Tra i contributi
specifici di Bacone all'ottica ricordiamo ancora lo studio della formazione
delle immagini in una camera oscura, lo studio della rifrazione,
dell'arcobaleno (per il quale fornisce una stima dell'altezza dell'arco
primario e secondario e ne associa i colori a quelli prodotti da un prisma) gli
esperimenti sulla determinazione della distanza focale di specchi parabolici
illuminati dai raggi solari considerati paralleli sulla terra, gli esperimenti
con lenti pianoconvesse delle quali diede però una spiegazione non corretta.
Tra i successori di
Bacone vi fu John Pecham
La sua Perspectiva Communis, che introduce agli
insegnamenti degli studiosi di ottica del periodo medievale di maggior rilievo,
avrà una grande diffusione e, ancora in epoca rinascimentale, costituirà la
base per la prospettiva pittorica. Di grande popolarità godrà pure Witelo
(1230-75), principale mediatore degli studi di Alhazen in Occidente.
Nello stesso periodo a
Parigi (con Bologna e Padova tra le prime e più importanti università)
opereranno Alberto Magno (1193-1280) e successivamente il suo allievo Tommaso
d'Aquino (1225-74), entrambi domenicani. Grazie a essi il pensiero aristotelico
si diffonderà in Europa, mediato dall'incontro con la tradizione cristiana.
Quindi parallelamente alla tradizione «perspectivista» di Oxford, si sviluppano
in Europa altri filoni di pensiero, legati in particolare a una ripresa delle
tradizioni galeniche ed euclidee e agli sviluppi dell'aristotelismo tomista e
averroista.
Sebbene queste tendenze
fossero maggioritarie, esse non portarono contributi di rilievo e, in
particolare, non assunsero quel carattere di sintesi tipico della perspectiva. Al fine di comprendere
l'importanza del dibattito sulla luce, è interessante comunque rilevare
l'influenza che le concezioni dominanti in filosofia naturale ebbero anche in
campo teologico e artistico [iii]. La lettura dei passi danteschi è stimolante a questo
proposito, soprattutto se condotta in parallelo con il brano di Bartolomeo
l'Inglese (ca. 1240), per il contrasto che emerge da due ambienti culturali
differenti, uno di orientamento aristotelico-tomista, l'altro neoplatonico,
rispetto al problema del lumen e
della lux.
Un contributo di rilievo
nella tradizione aristotelica è dato, sulla scia di Alberto Magno, da un altro
domenicano tedesco: Teodorico di Freiberg (morto nel 1292). Già Alberto Magno
aveva notato l'importanza delle singole gocce nella formazione dell'arcobaleno,
ma Teodorico ne fornirà uno studio completo e qualitativamente esauriente.
L'arcobaleno fin dall'antichità aveva attratto l'attenzione dei filosofi
naturali. Aristotele nei Metereologica l'aveva
ricondotto alla riflessione della radiazione visuale da parte di goccioline di
umidità, sospese in una nuvola esposta al sole. Questa teoria della riflessione
prevalse per tutto il Medioevo finché Grossatesta non propose una spiegazione
che, benché di complessa interpretazione, ebbe il merito di considerare anche
la rifrazione.
La tradizione
perspectivista della seconda metà del XIII secolo di Bacone, Pecham e Witelo
rimarrà il maggiore contributo all'ottica medievale. Occorre però notare che il
clima filosofico subirà profonde modifiche dopo la condanna del 1277 da parte
di Etienne Tempier, vescovo di Parigi, di taluni sviluppi dell'aristotelismo,
principalmente averroista. Questa condanna fatta su basi teologiche ebbe come
conseguenza il porre in discussione l'autorità di Aristotele anche in campo
filosofico. I francescani Duns Scoto (1265-1308) e William Occam (1285-1349)
presero parte, sebbene con approcci differenti, a questa reazione
critico-scettica nei confronti dell'aristotelismo. All'interno della ripresa di
temi nominalisti ed empiristi, vicini talvolta alle analisi del linguaggio del
nostro secolo, è rilevante la posizione di Occam nei confronti del problema
della visione. Egli, infatti, si oppone alla teoria delle species e all'ipotesi
di un mezzo interposto tra l'oggetto e l'osservatore; basando la sua critica
sulla mancanza dell'evidenza sperimentale a favore delle species, Occam è
probabilmente il primo ad affermare l'idea di azione a distanza.
Verso la seconda metà del
XIV secolo, alla rottura del programma aristotelico si accompagna la ripresa
della tradizione matematica inaugurata da Grossatesta a Oxford, ripresa che
avviene particolarmente al Merton College. Queste analisi matematiche vengono utilizzate
a Parigi per investigare le cause fisiche del moto introducendo il concetto di
impeto e quantificando le forze e le resistenze del moto naturale dei corpi.
Tra questi pensatori parigini sono interessanti per la storia dell'ottica
Buridano (1300-58) e Nicola d'Oresme (1320-82) per il loro approccio empirista
e matematico. Nel De Visione stellarum di
Oresme viene fortemente sviluppata la geometria delle osservazioni astronomiche
con particolare riferimento alla rifrazione atmosferica. Questo approccio
contribuirà a spostare l'accento dalla lux,
l'entità più specificamente psichica, al lumen,
la radiazione più specificamente fisica.
Alla fine del XIV secolo nuovi fermenti culturali, principalmente a Oxford
e a Parigi, confluirono nella tradizione ottica della perspectiva, la piu
sviluppata dal punto di vista della scienza contemporanea anche se non la piu
diffusa all'epoca. Ma nel '400 e '500 non è dalla tradizione dotta che vennero
contributi di rilievo allo sviluppo scientifico bensi dal mondo piu vario e piu
attivo della tradizione artigianale. E in questo contesto che prende l'avvio il
diffondersi, dapprima casuale e confuso, poi via via piu sistematico e preciso,
di strumenti e di tecniche sperimentali che saranno tra le cause principali
della rivoluzione scientifica. Lo sviluppo tecnologico che avviene in questi
secoli e favorito, come si sa, dalle mutate condizioni sociali e quindi da
nuove esigenze di mercato che richiedono tutta una varieta di strumenti per la
navigazione, le tecniche militari, il rilevamento dei terreni, e dall'uso
sempre piu diffuso dei mezzi di stampa che permettono, insieme a una
divulgazione piu ampia delle informazioni scientifiche, la diflusione dei principi
di costruzione e di funzionamento degli strumenti.
In particolare, per lo sviluppo dell'ottica, la scoperta (o la riscoperta)
delle «lenticchie di vetro» avrà un'importanza notevole. Importate
probabilmente dall'Islam si erano diffuse lentamente in Occidente già da tempo.
Alla fine del 1200, in una fase di espansione dell'industria vetraria
veneziana, compaiono in Italia, forse per la prima volta, gli occhiali per
correggere la presbiopia. Una documentazione precisa sull'argomento tuttavia
non esiste poiché, come hanno messo bene in evidenza le analisi di Vasco Ronchi
[1] le lenti da occhiali sono dovute alla pratica di
artigiani e di esse e diflficile ricostruire l'origine storica. L'uso
scientifico delle lenti per correggere la vista fu osteggiato dalla comunità
dotta tardo-medievale sulla base delle teorie filosofiche e ottiche dell'epoca.
Si pensava infatti che esse appartenessero al mondo delle «illusioni ottiche»,
un dominio di fenomeni ai confini della magia estremamente sospetto per una
scienza della visione che aveva cosi strette connessioni epistemologiche e
teologiche. Non c'e dunque da meravigliarsi se, in questa sezione, da una parte
presenteremo dei brani riguardanti l'attivita di un artigiano, per quanto
geniale e illustre come Leonardo, e dall'altra faremo riferimento a un testo di
magia naturale, quello di Della Porta.
Come abbiamo accennato, la scoperta delle lenti di vetro fu molto
probabilmente dovuta al caso e per lungo tempo esse non costituirono oggetto
sistematico di studio: nei principali testi di ottica dell'epoca non vengono
menzionate e quando infine Della Porta ne parla nel De Refractione (1593) ne da
una spiegazione fondamentalmente erronea. Esse, dicevamo, fanno piuttosto parte
del patrimonio sperimentale degli artigiani: lo stesso termine «lenti»,
derivante dall'analogia con la forma delle lenticchie, aveva un'origine
essenzialmente popolare e muta nel termine piu aulico di «specilli» quando le
lenti entrano a far parte della tradizione dotta. Il fatto che l'uso delle lenti
tardo a lungo a essere introdotto nell'ambito scientifico deriva in primo luogo
dai molti e ardui problemi interpretativi che esse ponevano. Infatti, secondo
le teorie correnti, la vista doveva permettere di conoscere la verità sia per
mezzo delle species emanate dall'oggetto che per mezzo dei raggi visuali emessi
dall'occhio. Il percorso naturale di entrambi era quello rettilineo e non v'era
ragione di introdurre, tramite le lenti, modifiche a questa traiettoria. Il
ritenere che queste modifiche non portassero che a illusioni va attribuito
all'incapacità dell'ottica tardo-medievale di spiegare teoricamente alcuni
evidenti fenomeni di riflessione e di rifrazione su superfici sferiche. Infatti
era noto fino dall'antichità che raggi paralleli incidenti su uno specchio
concavo nella direzione del suo asse danno luogo a un fascio di raggi riflessi
che inviluppano una caustica, cioe non convergono in un fuoco ma si
distribuiscono su una superficie. Non era possibile spiegare, ad esempio, come
si potesse osservare in uno specchio concavo diretto verso il cielo le figure
degli astri. Lo stesso avveniva per la rifrazione attraverso sfere o semisfere
di vetro: i raggi rifratti intersecavano l'asse in punti diflerenti. Questi
problemi non risolti ritardarono così lo studio delle lenti, considerate
sistemi ottici ancora piu complessi.
Per quanto riguarda il contributo di Leonardo da Vinci (1452-1519), di
difficile inquadramento teorico per il carattere eterogeneo e non sistematico
ma di grande interesse ricordiamo una serie di osservazioni per lo più di
ottica fisiologica, connesse a studi di prospettiva. Tra queste vi è lo studio
sulla variazione dell'apertura della pupilla in funzione della quantita della
luce entrante: «l'occhio dell'omo raddoppia in tenebre la sua popilla». La
camera oscura viene messa in corrispondenza con l'occhio ma, poiché Leonardo
non ne conosce perfettamente l'anatomia, i termini di paragone risultano non
corretti. In particolare il cristallino viene assunto sferico e ritenuto sede
del raddrizzamento delle specie che entrano capovolte nella pupilla.
Una valutazione a parte va fatta per Giovan Battista Della Porta non tanto
per i suoi contributi teorici e sperimentali alla teoria della luce, del resto
assai ridotti, quanto per la divulgazione di alcune applicazioni pratiche
dell'ottica. Nella Magia Naturale [2] l'autore espone una serie di esperimenti curiosi
con lo scopo di stupire il pubblico, in particolare nel libro XVII, illustra
esempi di trucchi e di illusioni ottiche realizzati con specchi e lenti. Quel
che e necessario rilevare in questo libro e il mutato atteggiamento nei
confronti delle lenti, considerate dai piu «ordigni fallaci» e ingannevoli,
deformanti la realtà. Della Porta, al contrario, ne proclama l'utilità e ne
descrive le molteplici applicazioni come strumento che potenzia l'organo della
vista. Va rilevato tuttavia ancora una volta che, sebbene l'autore faccia
spesso appello alla pratica sperimentale, il libro non ha una veste scientifica
in senso stretto ma piuttosto e orientato verso la pratica magica. Ciò
chiarisce la tendenza da parte dell'autore a evidenziare gli aspetti prodigiosi
e apparentemente inspiegabili dei fenomeni ottici. Del resto la Magia Naturale
di Della Porta esemplifica assai bene gli orientamenti scientifici della
seconda metà del '500 in cui la critica serrata ai dogmi medievali aveva
lasciato spazio ad atteggiamenti di tipo magico. I confini tra magia e
filosofia naturale erano divenuti labili, spesso indistinguibili, e a risolvere
i problemi ai quali la ricerca scientifica non sapeva dare risposta,
interveniva la pratica magica.
«La magia naturale, — citando uno studioso dell'epoca, — non è altro che il
potere principale di tutte le scienze naturali, per cui la nominano come la
vetta e la perfezione della filosofia naturale, di cui e invero la parte attiva
che con l'aiuto delle forze e delle facolta naturali e mediante la loro
applicazione mutua e opportuna, realizza quelle cose che sono al di sopra della
ragione umana» [3]. Si deve però osservare, e Della Porta lo
sottolinea in prima persona, che la magia naturale è diversa dalla magia nera:
mentre la prima cerca di spiegare fatti occulti per mezzo degli usuali
strumenti di indagine ed è diretta a buon fine, l'altra è «infame, e infelice
poiché ha a che fare con spiriti immondi e consiste di incantamenti e di
curiosità perverse». Oggetto di studi della magia naturale sono le forze di
simpatia e antipatia, ritenute dominanti in natura, la teoria delle segnature
che fa corrispondere all'aspetto di un corpo naturale una proprietà curativa da
esso suggerita, le virtù delle pietre e delle piante, le attrazioni magnetiche,
le illusioni ottiche.
In questo atteggiamento, ai confini tra la credulità popolare e la
curiosità scientifica si possono individuare elementi prescientifici che
apriranno la strada al metodo sperimentale e alla scienza classica: fra essi il
ricorso costante all'osservazione dei fenomeni, che spesso, al di la di
qualsiasi pratica spicciola e di tipo rituale, si configura come un'indagine
sperimentale in piena regola. Nella Magia Naturale di Della Porta si ritrovano
tutti questi elementi.
Le letture che presentiamo, dal XVII libro della Magia Naturale, testimoniano questo approccio particolare. Da
notare, per quel che riguarda più direttamente l'ottica del tempo, l'analogia
tra una camera oscura fornita di lente e l'occhio. La sede dell'immagine,
erroneamente assunta nel cristallino, è assimilata alla parete su cui si
proiettano le immagini. Nel capitolo XI l'autore menziona le lenti col termine
dotto di specillum e polemizza con gli scienziati che non ne hanno saputo
spiegare le proprietà. In questo capitolo, inoltre, c'è un famoso brano in cui
alcuni commentatori hanno voluto vedere un'anticipazione del telescopio
galileiano; ma Ronchi smentisce questo punto di vista interpretando la
combinazione della lente concava e di quella convessa come un sistema per
correggere l'astigmatismo. Nel capitolo IX, infine Della Porta fornisce una
confusa descrizione dell'uso delio specchio concavo per costruire un telescopio.
Per quel che riguarda la tradizione dotta, va infine rimarcato l'unico
contributo di rilievo, quello di Francesco Maurolico da Messina (1494-1574), un
frate originario di Costantinopoli che ben conosceva l'opera di Alhazen.
Purtroppo l'opera di Maurolico, pubblicata postuma, non ebbe influenza fra i
suoi contemporanei e quindi si configura come l'illuminato contributo di un
pensatore minoritario e isolato. Esempio più rappresentativo della tradizione
dotta e la traduzione e il commento in italiano dell'opera di Euclide (1573) da
parte di Egnazio Danti (1536-86), cosmografo del duca di Toscana. Lo stile
erudito, le disquisizioni ancora legate alla filosofia scolastica, il rifiuto
delle posizioni scientifiche piu recenti e raffinate ne fanno un interessante
documento della vita accademica alle soglie della rivoluzione scientifica.
I problemi della riflessione e rifrazione da sfere e semisfere di vetro vengono
avviati a soluzione da padre Maurolico. La sua opera, un breve trattato scritto
tra il 1521 e il 1555, fu pubblicata solo nel 1611 con le note di padre Clavio,
membro del Collegio Romano. Il libro si compone di due parti, i Photismi de
lumine et umbra ad perspectivam, et radiorum incidentiam facientes e le
Diaphanorum, seu trasparentium partes. In esso l'autore si interesso di quasi
tutti gli aspetti dell'ottica e della visione: l'illuminazione di fasci in
condizioni diverse, la formazione delle ombre, la riflessione su specchi piani
e sferici, la rifrazione su lamine a facce pianoparallele, su prisma e su sfere
di vetro, l'arcobaleno, l'anatomia dell'occhio, il funzionamento delle lenti da
occhiali. L'opera di Maurolico e atipica nel pano- rama del '500: sorpassa di
gran lunga quella di Della Porta, e precorre con straordinaria somiglianza
quella fondamen- tale di Keplero tanto che Ronchi adombra la possibilita che
questi possa aver avuto a disposizione un manoscritto di Maurolico nella fase
di stesura dei Paralipomena [4]. Di grande importanza è la definizione di raggio:
superando il concetto di species Maurolico afferma che da ogni punto del corpo
luminoso vengono emessi in tutte le direzioni e con continuità raggi luminosi;
l'autore inoltre sostiene, sia nel caso della riflessione da specchi concavi
che nel caso della rifrazione attraverso sfere di vetro, che i raggi riflessi e
rifratti formano un cono con il vertice sull'asse. Riguardo alla rifrazione
accetta pero la proporzionalita tra angolo di incidenza e di rifrazione, legge
che sappiamo essere vera solo per piccoli angoli. Infine, nello studio
dell'occhio e delle lenti, Maurolico stabilisce un'analogia tra il cristallino
e le lenti convergenti di vetro e attribuisce i difetti della vista alla forma
del cristallino.
Nel commento all'Ottica di Euclide, Egnazio Danti affronta i problemi della
scienza della visione da un punto di vista molto più «classico». Nelle letture
riportiamo i commenti ai primi due assiomi. Il raggio visuale viene definito
come linea retta uscente dall'occhio, in analogia con il raggio luminoso che
porta la luce dal corpo luminoso al «corpo oppostoli». Pertanto si stabilisce
una distinzione tra la linea geometrica «senza larghezza alcuna» e la linea prospettica
che «avendo pur la larghezza nella quantità fisica appresso i Matematici sarà
stimata superficie».
É importante asserire che ciò nonostante per Danti la prospettiva può
essere considerata come scienza perchè la «visualità» della linea non ne costituisce
«una differenza accidentale ma una ragione formale». A proposito della
direzione dell'emissione, Danti passa in rassegna le differenti posizioni e
giustifica la sua preferenza per quella di Euclide e dei «matematici» con
alcuni riferimenti a Galeno e alla similitudine dei raggi uscenti con il senso
del tatto, ma ancor più con la constatazione che entrambe le ipotesi sono in
accordo con i teoremi della prospettiva. Completamente in disaccordo con la perspectiva trecentesca è invece la
constatazione dell'intervallo spaziale che separa i raggi visuali che
colpiscono l'oggetto. Questa distanza, che è giustificata dall'angolo che i
vari raggi hanno tra loro uscendo dall'occhio, è contraria agli sviluppi
dell'analisi della visione sulla base della corrispondenza punto-punto tra
oggetto e occhio, analisi che abbiamo spesso richiamato. Inoltre, nella
«seconda suppositione» Danti mantiene ancora l'idea che la base del cono
visuale circoscriva la cosa vista, e che si vedano più distintamente le cose
sotto angoli maggiori. Le argomentazioni di Danti sono in profondo contrasto,
metodologico e di contenuto, sia con quelle vivissime di Leonardo, provenienti
dalla pratica artigianale, sia con quelle «scientifiche» di Maurolico che
sviluppano le tematiche «perspettiviste», sia con quelle magico-sperimentali di
Della Porta.
L'incontro degli elementi più vitali di queste tradizioni avrebbe posto di
lì a poco il mondo accademico di fronte a una svolta, probabilmente la più
importante nella storia della scienza.
[1] Cfr. Ronchi, La storia della luce cit., cap. III e,
dello stesso autore (a cura di), Scritti
di ottica, Milano, Il Polifilo, 1968, p. 135.
[4] Ronchi sottolinea la straordinaria rassomiglianza
di impianto teorico esistente tra l'opera di Maurolico, composta intorno al
1550, e i Paralipomena cli Keplero. Non esiste tuttavia alcuuna prova che
Keplero abbia potuto in qualche modo consultare il testo di Maurolico. Su
questo punto si vedano, a cura dell'autore citato, gli Scritti di ottca Cit., p. 75.
[i] Cfr. V. Ronchi, Storia
della luce, Bologna, Zanichelli, 19522, p. 35, G. Nebbia, Ibn Al Haytham nel millesimo anniversario
della nascita, in «Phisis», IX, 1967. I motivi per i quali nel cristallino
viene individuata la sede di formazione delle immagini verranno chiariti nel
seguito.
[iii] Riportiamo a motivo di esempio la posizione di Tommaso
d'Aquino: «si dice luce, ciò che è in qualche corpo lucido in atto [...], lumen invece è chiamato ciò che è
recepito in un corpo diafano illuminato » [sent. 13, I, a-3]. Le influenze
teologiche e artistiche del dibattito si riscontrano anche in molte poesie
dell'epoca, ad esempio in Jacopone da Todi: « Amor, che daje luce / ad omnia
che ha luce, / la luce non è luce, / lume corporeato». Nei primi due versi
viene evocata la concezione della moltiplicazione delle specie e nei secondi la
differenza tra lux e lumen (lux non è lumen, lumen è invece luce materializzata).