Il dibattito sulla natura della luce
Nel '600, nella fase di rottura con la tradizione e di capovolgimento metodologico nell'impresa scientifica, l'ottica si trova in posizione di avanguardia. Essa viene a occupare questo ruolo avanzato poichè, agli inizi del secolo, si presenta con un corpus teorico relativamente maturo.
La tradizione perspectivista, risalente agli studi di Alhazen e sviluppata da Bacone e dai suoi allievi fu ripresa e completata Keplero (1571-1630), nella sua opera del 1604 dal significativo titolo Paralipomena ad Vitellionem. In essa l'autore analizza la natura e il comportamento della luce e i processi di formazione e di localizzazione delle immagini. Significativamente nei Paralipomena viene quasi del tutto omessa la trattazione delle lenti, a esclusione di qualche cenno fatto dall'autore in relazione alla correzione dei difetti dell'occhio con lenti convergenti e divergenti. Il merito di rompere definitivamente con la pratica scientifica tradizionale nei confronti degli strumenti ottici spetta percio interamente a Galileo (1564-1642), il quale, nel 1609, userà per primo il cannocchiale per una serie di rilevanti osservazioni e scoperte astronomiche.
Già da alcuni anni si era diffuso a opera di alcuni artigiani olandesi l'uso del cannocchiale realizzato, forse casualmente, con lenti da occhiali e perciò dotato di pochissimi ingrandimenti, scarsa luminosità e forti aberrazioni. La cattiva qualità delle osservazioni aveva avvalorato ancora una volta negli ambienti accademici l'idea di inefficacia e di irrilevanza degli strumenti ottici, buoni tutt'al più a destare curiosita ma non certo a essere inseriti in un progetto diricerca a livello scientifico. Così il cannocchiale, pur potendo trovare un'ovvia utilizzazione in campo militare e navale, non era riuscito inizialmente a riscuotere un serio credito.
Solo l'abile presentazione di Galileo alle autorità, suffragata poco dopo dalla pubblicazione del Sidereus Nuncius (1610), riesce a imporre lo strumento e a suscitare di riflesso l'interesse, se pure discorde e per lo più negativo, dell'ambiente scientifico[1].
Occorre notare che il cannocchiale usato da Galileo, anche se formalmente analogo agli esemplari che ormai circolavano da qualche anno nelle botteghe degli occhialai in Europa, era stato da lui perfezionato al punto che con esso era possibile ottenere un ingrandimento di decine di volte, maggiore. Al di là di ogni disputa sulla priorità della invenzione del cannocchiale - che del resto lo stesso Galileo attribuisce ad altri [2] - si può dunque affermare che solo nelle sue mani esso diviene uno strumento potente di indagine.
L'osservazione dei satelliti di Giove risale all'inizio del 1610; la reazione dei cattedratici si estenderà poco dopo, da Padova, Bologna e Pisa, a quasi tutti gli ambienti accademici e durerà per circa un anno. Il giudizio favorevole alle osservazioni di Galileo, espresso da Keplero alla fine del 1610 e dai Padri del Collegio Romano nell'aprile del 1611, segnerà la vittoria del cannocchiale e la fine della congiura del silenzio intorno agli strumenti ottici.
Ma cerchiamo di analizzare meglio la vicenda galileiana del cannocchiale e i motivi per i quali il contenuto del Sidereus Nuncius destò una così grande reazione nel mondo accademico. Occorre in primo luogo precisare che le osservazioni astronomiche di Galileo portavano a un diretto e insanabile contrasto con la cosmologia aristotelica, ritenuta valida, accettata e insegnata nella versione tomista dalla Chiesa cattolica. In secondo luogo era l'uso del cannocchiale a essere messo in discussione. Il problema è storicamente e metodologicamente molto rilevante: di fronte all'«evidenza sperimentale» proclamata da Galileo si obiettava che il problema era di carattere teorico e non sperimentale. Accettare l'uso del cannocchiale implicava accettare la teoria in base alla quale esso era costruito e per l'appunto si sosteneva che il cannocchiale non poteva consentire osservazioni valide perché era uno strumenlo che «deformava» la realtà e «ingannava» la natura.
Il problema, di rilievo in questa fase non solo per l'ottica e l'astronomla ma per tutto il sapere scientifico, viene affrontato da Keplero, il quale viene chiamato a dare un giudizio sul cannocchiale di Galileo e sulle sue osservazioni. Dopo un breve periodo di incertezza, Keplero si pronuncia a favore dello strumento nel settembre del 1610 con la Narratio de observatis a se quatuor Jovis satellitibus erronibus, quos Galilaeus Mathematicus Florentinus pure inventionis Medicea Sidera nuncupavit e scrive a Galileo la famosa frase «Vicisti Galilaee!».
Ma ciò che è più importante, nello stesso mese di settembre Keplero scrive il Dioptrice, una teoria scientifica completa sulle lenti che entrano così definitivamente e stabilmente nel mondo accademico. Senza dubbio questo fu un decisivo elemento nella lotta a favore del nuovo metodo scientifico. Da un punto di vista metodologico infatti le obiezioni contro il cannocchiale di Galileo non erano, prima del Dioptrice, prive di valore: esse tendevano a porre in risalto che non vi era «evidenza» sperimentale in sé, ma che ogni esperimento era inserito e prodotto in uno specifico contesto teorico. Per accettare l'uso scientifico, cioè intersoggettivo, del cannocchiale bisognava accettare la teoria ottica delle lenti, che prima del Dioptrice non era affatto chiara; quindi c'era spazio per il timore di essere preda di «illusioni ottiche». Merito di Galileo fu dunque di aver posto con forza e con coraggio un decisivo problema sul tappeto e di aver stimolato la riflessione teorica, in una direzione che si sarebbe rivelata estremamente feconda; ma un definitivo progresso si sarebbe avuto tuttavia solo con un capovolgimento teorico complessivo. Ma quali erano gli elementi di rilievo nella teoria kepleriana? Nei Paralipomena l'elemento decisivo è il superamento della teoria delle species coerenti emesse dall'oggetto. Keplero, superando Maurolico nella ripresa della tradizione perspettivista, afferma che da ogni punto dell'oggetto partono raggi di luce in ogni direzione. La luce viaggia con velocita infinita e viene immaginata come una superficie di inviluppo delle estremità dei singoli raggi (una sorta di prefigurazione del fronte d'onda) che in se stessi non hanno consistenza fisica e quindi sono analoghi a traiettorie di corpi in movimento.
La luce non ha colore, che viene acquisito nella riflessione su corpi colorati. Keplero inoltre unifica e risolve il problema della visione con quello della riflessione e rifrazione. Per quel che riguarda la riflessione su specchi piani Keplero riesce finalmente a spiegare il perché del fenomeno della simmetria rispetto al piano riflettente tra l'immagine e l'oggetto. Per quanto riguarda la rifrazione egli non riesce tuttavia a individuarne la legge poiché considera variazioni di (ir) che portano a funzioni piuttosto complicate degli angoli e si limita percio a considerare costante il rapporto i/r per piccoli valori di i. Nel caso della visione diretta Keplero stabilisce la regola del triangolo distanziometrico: l'occhio «sente» la divergenza dei raggi in arrivo emessi da un singolo punto e può quindi ricostruire la distanza del punto emettente. Nel processo della visione Keplero correttamente pone la retina come sede della percezione degli stimoli luminosi superando il problema del capovolgimento delle immagini: la retina (o la psiche) ha la facolta di interpretarle correttamente. Ma ciò che è più importante, attribuisce alla pupilla la funzione di ridurre il cristallino a calotta sferica e quindi di evitare i fenomeni di aberrazione che davano luogo alla caustica nel caso della rifrazione. Unificando genialmente tutti questi elementi Keplero spiega il processo della visione con il doppio cono: un punto emette raggi in ogni direzione, questi vengono a colpire l'occhio che forma la base del cono incidente e quindi individua la distanza del punto oggetto; i raggi vengono rifratti e focalizzati sulla retina, ancorché invertiti. Il cristallino dunque agisce come una lente convergente e i suoi difetti possono essere corretti da opportune lenti convergenti o divergenti. É da notare inoltre che Keplero fece un'importante distinzione nello studio della rifrazione tra picturae, o immagini viste su uno schermo, e imagines rerum, o immagini rivelate direttamente dagli occhi. Le picturae corrispondono grosso modo alle odierne immagini reali mentre le imagines rerum alle immagini virtuali, cioè alle immagini che «si dice» si vedono nei punti vertici di coni di raggi che arrivano all'occhio quando tali vertici sono sui prolungamenti all'indietro dei raggi che arrivano all'occhio che guarda specchi, prismi o lenti.
La soluzione data dall'autore al problema del ruolo dell'occhio nel processo della visione e l'uso «scientifico» del telescopio da parte di Galileo (nonché gli sviluppi dell'ottica tecnica) con la conseguente formulazione da parte di Keplero della teoria delle lenti, ebbero una decisiva importanza sugli indirizzi dell'ottica nel '600. Lo studio della luce infatti si distaccò dal più complessivo studio del processo della visione, sia perche gli aspetti fisiologici del problema sembravano risolti, sia perchè gli aspetti psicologici-soggettivi venivano a essere trascurati a favore di quelli intersoggettivi ottenibili tramite il crescente uso di strumenti scientifici.
Seguendo la terminologia adottata possiamo dire che lo studio del lumen diviene di gran lunga prevalente su quello della lux. Ronchi nota che il problema non è più quello di definire la luce e l'oscurita e la nostra capacità di «vedere» gli oggetti «esterni». Il problema diventa piuttosto quello di definire più specificamente la luce, in particolare se sia materia o movimento, luce di cui si da per certo che sia un qualcosa esterno all'osservatore, che si propaga in linea retta, si riflette, «estrae colore» dai corpi, si rifrange, trasporta calore, forma immagini attraverso le lenti e stimola la retina. In definitiva gli aspetti fisiologici e psicologici del processo della visione cedono il posto ad una raffinata analisi degli aspetti fisici. In questo scenario si inserisce un altro contributo galileiano di rilievo: il tentativo di misurare la velocità della luce.
La questione se la luce richieda tempo per propagarsi, era stata più volte affrontata. Sulla base di semplici esperienze, legate per lo più al senso comune, era prevalsa l'idea che la luce dovesse propagarsi istantaneamente. Questa convinzione era stata rafforzata da alcune considerazioni legate alla fisica aristotelica; poiché la propagazione della luce non rappresentava un moto materiale, non dovendo essa subire resistenza nel mezzo, doveva propagarsi in un istante. A questa concezione aderirono per secoli quasi tutti gli studiosi di ottica, tra i quali Keplero e Cartesio, con qualche eccezione costituita ad esempio da Alhazen e dai suoi sostenitori. Un primo suggerimento valido di determinazione della velocità della luce viene proposto da Galileo del quale riportiamo nelle pagine seguenti una descrizione chiara e suggestiva del suo progetto sperimentale. Il metodo proposto da Galileo e ineccepibile dal punto di vista logico, tuttavia in esso intervengono distanze terrestri così brevi da non consentire in alcun modo una rilevazione di tempo. La prima valutazione numerica della velocita della luce viene eseguita da O.Romer (1644-1710) con metodi che fanno uso di grandi distanze. L'individuazione del metodo usato da Romer può essere considerata un «effetto secondario» originato da un diverso progetto di ricerca. Egli era stato incaricato di compilare tavole che riportassero il movimento dei satelliti di Giove con lo scopo di utilizzarne i dati per la determinazione della longitudine. Osservando i ritardi delle eclissi del primo satellite di Giove Romer formula l'ipotesi che essi debbano essere attribuiti ai diversi tempi di transito occorsi alla luce per percorrere le distanze relative Terra-Giove nei diversi periodi dell'anno. L'ipotesi di Romer, comunicata nel 1676 alla Académie des Sciences, viene accolta con scetticismo dall'ambiente accademico, quasi tutto cartesiano, ed è significativo al riguardo il conflitto di Romer con Cassini, direttore dell'osservatorio di Parigi ed esponente della scienza ufficiale.
Questo conflitto è un altro aspetto dello sviluppo, in questo periodo, del concetto stesso di scienza e quindi del legame tra i problemi delle indagini ottiche e quelli legati alla definizione di cosa sia l'ottica come scienza. Le discussioni metodologiche sono strettamente connesse a quelle più specificamente scientifiche e sebbene sia molto complesso definire il rapporto tra le due, purtuttavia questo rapporto esiste e, in particolare in ottica, è fortemente influente . Cartesio infatti presenta la sua Dioptrique e le Météores come conseguenza del Discours de la Méthode; Fermat elabora la sua derivazione della legge della rifrazione da un principio variazionale alla fine di una lunga controversia con Cartesio su che cosa sia una «vera» legge di natura e sul rapporto fisica-matematica. Huygens, nella prefazione al suo Traité de la Lumière, espone una teoria metodologica in accordo alla teoria sviluppata nel libro e così pure Newton collega dibattiti metodologici con la sua teoria della luce e dei colori.
É da questo secolo in poi che le quattro componenti metodologiche delineate nell'introduzione rivelano la loro particolare utilità nell'indagine storica: esemplare il caso della rifrazione. La ripresa di un'accurata sperimentazione permette di migliorare i risultati di Tolomeo (T. Harriot) e gli sviluppi della trigonometria permettono la formulazione matematica corretta della legge (W. Snell). Ma la legge si configurava a questo stadio solo come una legge sperimentale, non inserita in un contesto teorico e non deducibile quindi da assiomi più generali. Cartesio riteneva questa situazione estremamente insoddisfacente e non «scientifica». Egli definisce dunque un sistema concettuale e alcuni principi metodologici (in particolare una categoria di causalita legata alla ccnservazione della quantità di moto) dai quali tenta di derivare la legge sperimentale della rifrazione. Differente l'approccio di Fermat: pur condividendo la validità della legge sperimentale della rifrazione come espressa da Cartesio, Fermat tenta di derivarla da una differente base concettuale e da differenti principi metodologici (in particolare una categoria di finalità collegata al principio variazionale del tempo minimo). Questo dibattito, apparentemente «filosofico», ha in realtà un grandissimo valore euristico nel campo più specificamente scientifico. Infatti la legge della rifrazione ammette, oltre che differenti deduzioni teoriche, anche differenti valori relativi per la velocita della luce nei mezzi a differenti densita. Nelle ipotesi cartesiane la velocità e maggiore nei mezzi a maggiore densità, nelle ipotesi di Fermat e minore. L'approccio cartesiano si afferma e, in mancanza di un apparato strumentale capace di una determinazione quantitativa sufficientemente precisa, le idee di Fermat dovranno aspettare due secoli per essere corroborate.
Pertanto metodologia e scienza sono strettamente interconnesse e le componenti sperimentali, matematiche, metafisiche e regolative costituiscono un intreccio complesso, una cui accurata descrizione esula purtroppo dai limiti di questi case studies. Ci soffermeremo quindi su alcuni cenni introduttivi.
All'inizio del secolo XVII la teoria dei fenomeni luminosi considerava definitivamente acquisiti alcuni elementi: la luce si propaga per raggi rettilinei da ogni punto della sorgente luminosa e si riflette, si rifrange o viene assorbita a seconda della particolare superficie di incidenza. Gli aspetti fisici, fisiologici e geometrici della luce sono descritti con una certa coerenza e anche l'ottica tecnica è in fase di grande espansione [3]. Restava però aperto il problema relativo alla natura della luce, se essa cioe sia moto o materia. In questa sezione analizzeremo alcune fasi del dibattito che si svilupperà intorno a questo problema che ricorre spesso nel '600 ed è assai rilevante per le sue implicazioni nella costruzione della teoria dei fenomeni luminosi.
Nel 1637 Cartesio pubblica, insieme ad altri due trattati, le Météores e la Géométrie, uno studio organico sull'ottica, la Dioptrique. Nella prefazione, dal titolo Discours de la méthode, Cartesio, tra l'altro, definisce alcune regole metodologiche «per ben condurre la propria ragione e cercare la verità nelle scienze».
La fisica cartesiana poggia su due livelli di spiegazione, il primo dei quali e connesso ad alcune verita a priori che costituiscono un vero e proprio sistema di assiomi (la materia è pura estensione, e infinitamente divisibile, il vuoto non esiste, tutti i moti sono circolari, la quantità di moto dell'universo è costante, ecc.); il secondo livello è costituito da un sistema ipotetico-deduttivo che comunque non deve essere in contraddizione con le verità a priori. Il ricercatore può fare appello all'esperimento la cui funzione tuttavia si deve limitare a confermare, piuttosto che a provare, certe conclusioni compatibili con le verita a priori.
Le concezioni sulla natura della luce vengono fatte discendere da Cartesio dal primo livello, come conseguenza del principio metafisico in base al quale il movimento è l'unico potere esistente in natura.
L'ipotesi che sta alla base della Dioptrique è appunto che la luce sia un'azione o un movimento che obbedisce alle stesse leggi del moto locale e che si trasmetta in un tutto pieno. Essa però non corrisponde a un moto effettivo ma piuttosto a una tendenza al movimento, a una pressione che si propaga istantaneamente dalla sorgente luminosa agli occhi dell'osservatore.
Per Cartesio, il plenum di materia, in conseguenza del moto primario impresso da Dio, si era suddiviso in tre categorie di particelle, diverse per forma, dimensioni e velocità. Le particelle più piccole e leggere non hanno forma, e di esse sono costituite le stelle e il sole, quelle più grandi, dotate di minore velocità, hanno forma sferica e riempiono gli spazi interplanetari, le ultime, e le più lente, costituiscono la materia della terra e dei pianeti. La luce per Cartesio è generata proprio dalle pressioni che la prima classe di particelle esercita su quelle della seconda e i raggi luminosi sono le linee lungo le quali queste pressioni (o tendenze al moto) si manifestano.
La concezione sulla luce viene così ulteriormente chiarita da Cartesio: «Voglio che voi pensiate che la luce, nei corpi che chiamiamo luminosi, non è altro che un certo movimento o azione molto rapida e violenta che giunge ai nostri occhi attraverso la mediazione di un bastone. Questo vi eviterà fin dall'inizio di trovare strano che la luce possa estendere i suoi raggi in un istante dal sole a noi: giacché voi sapete che l'azione con cui viene mossa l'estremità del bastone passa all'altra in un istante» [4].
Incapace di una deduzione rigorosa, per dare un'interpretazione della legge della riflessione Cartesio fa uso di una analogia meccanica con il caso di un proiettile che rimbalza su una superficie elastica (nella storia dell'ottica questa analogia è di vecchia data: di essa già si erano serviti Tolomeo, Alhazen, Bacone e Keplero). Egli suppone cioè che la luce, o moto in potenza, poiché obbedisce alle stesse leggi del moto locale, possa venir considerata come moto in atto e quindi messa in corrispondenza con il comportamento mec- canico del proiettile. Poiché la superficie riflettente non ha alcuna influenza sul suo moto, la velocità di incidenza del proiettile deve essere uguale a quella di riflessione: Vi = Vr. La componente orizzontale del moto, inoltre, si deve conservare cosicché: Vi sen i = Vr sen r, da cui segue l'uguaglianza tra l'angolo di incidenza e quello di riflessione (l'interpretazione della legge della riflessione viene qui data ovviamente in linguaggio moderno. Cartesio in realtà non parla mai di velocità ma piuttosto di una «determinazione della luce al movimento»).
Anche per la rifrazione Cartesio si basa sull'analogia meccanica: la luce, quando passa da un mezzo meno denso a uno più denso, si comporta, in sostanza, come una palla da tennis che penetra ad esempio dall'aria in acqua. La conclusione però è diversa nei due casi, mentre la luce, nel passaggio aria-acqua si avvicina alla normale alla superficie, la palla se ne allontana. «Questo fatto, afferma Cartesio, non risulta più strano se vi richiamerete alla natura che ho attribuito alla luce quando affermavo che essa altro non è che una specie di movimento o di azione concepita in una materia sottilissima che riempie i pori di tutti i corpi». Così Cartesio spiega che mentre una palla rallenta maggiormente il suo moto quando colpisce un corpo cede- vole, la luce viene << trattenuta di più dalle particelle di aria [...] che da quelle di vetro. Avviene così, che quanto più le particelle di un corpo sono dure e stabili, tanto più facilmente fanno passare la luce» [5].S
Per arrivare a stabilire la legge della rifrazione Cartesio parte da due assunzioni: le velocità di rifrazione e d'incidenza stanno tra loro nella relazione vr = nvi, dove n è una costante caratteristica dei mezzi. La componente parallela della velocità, inoltre, deve conservarsi di modo che vi sen i = vr sen r. Dalle due assunzioni segue la legge sen i/sen r = vr/vi = n.
Sulla priorità della scoperta della legge di rifrazione, che Cartesio attribuisce a se stesso, le opinioni sono discordi. Tuttavia è certo che già Thomas Harriot (1560 ca.- 1621) ne avesse individuato la legge in termini geometrici come rapporto di segmenti corrispondenti agli indici di rifrazione, ma non ne aveva pubblicato i risultati. Nello stesso periodo la legge veniva pubblicata da W. Snell (1591- 1626) sotto forma di un rapporto di cosecanti. Secondo alcuni Cartesio si sarebbe anzi limitato a modificare la legge di Snell costruendone poi, a posteriori, la dimostrazione. Del resto, la spiegazione fisica che Cartesio da del fenomeno, condotta in un linguaggio spesso assai oscuro e controverso, lascia insorgere non poche perplessita.
Dopo la pubblicazione della Dioptrique, lo stesso Fermat (1601-65) in più riprese aveva accusato Cartesio di aver usato nella sua dimostrazione ipotesi ad hoc. La decomposizione del moto della luce, secondo Fermat, era arbitraria e inoltre mal si conciliava con l'ipotesi postulata da Cartesio che la luce dovesse propagarsi istantaneamente; l'affermazione che la velocità della luce dovesse essere maggiore in acqua che in aria, inoltre, era inammissibile e andava contro ogni buon senso. Lo stesso Fermat deriverà nel 1662 la legge della rifrazione in base al principio di minimo secondo il quale il tempo che la luce impiega per propagarsi in due o più mezzi ottici deve essere minimo; egli trova la legge, che oggi sappiarno essere corretta, sen i/sen r = vi/vr Le idee di Fermat, accusato dagli stessi cartesiani di condurre dimostrazioni non causali bensì teleologiche, tuttavia non troveranno accoglienza negli ambienti accademici e l'ffermazione che la velocità della luce debba aumentare nei mezzi più densi dominerà le ricerche di ottica per oltre due secoli.
Nel 1665 viene pubblicato postumo uno studio di Francesco Maria Grimaldi (1618-63) dal titolo Phisico-Mathesis de lumine, coloribus et iride, il cui tema centrale riguarda ancora la natura della luce. Secondo i canoni dell'ottica ufficiale la luce si propaga o si diffonde solo in linea retta per rifrazione e per riflessione. In alcuni casi, tuttavia, con opportune modifiche sperimentali, si osservano fenomeni che non trovano una spiegazione diretta se si assume come valida la propagazione rettilinea della luce. Nel tentativo di stabilire sperimentalmente le dimensioni di un raggio luminoso, Grimaldi si trova a osservare proprio uno di questi fenomeni che definisce «diffrazione». Per spiegare questa deviazione di comportamento della luce, egli avanza allora l'ipotesi che essa, «almeno qualche volta», debba propagarsi «anche ondulatamente». Così, accanto all'idea di propagazione per raggi rettilinei emerge l'idea di raggi dotati di oscillazioni che si comportano secondo i principi dell'ottica geometrica ma che, a seconda della natura e delle dimensioni dell'ostacolo, si modificano in qualche modo in direzione e intensita. Grimaldi in tutto il corso dei suoi studi tenterà di interpretare la difErazione in una concezione corpuscolare, senza tuttavia riuscirvi.
Già nella teoria della luce di Cartesio, e in modo più controverso in quella di Grimaldi, emerge dunque un punto nodale relativo alla natura della luce che porterà successivamente a uno stato di crisi del modello interpretativo: la luce (lumen) è materia o moto? Ambedue le assunzioni trovano conferma o smentita in base ai fenomeni osservati: se ad esempio la luce si considera moto ondulatorio non si spiega il fenomeno delle ombre, poiché le onde aggirano gli ostacoli; se viceversa la luce e materia occorre dare una giustificazione della non interazione raggio-raggio e del passaggio nei corpi trasparenti.
Nel tentativo di definire la natura della luce vanno poi presi in considerazione fenomeni nuovi che complicano ulteriormente il modello, come la riflessione parziale su una superficie trasparente, la doppia rifrazione, la dispersione, la diffrazione e la colorazione di lamine sottili.
I fenomeni di dispersione e di colorazione delle lamine sottili erano già stati osservati e descritti (ma non spiegati) da Marcus Marci de Kronland nel suo trattato Thaumantias (1648). Nel 1665 viene pubblicata la Micrographia di Hooke (1635-1702) in cui viene descritto il fenomeno di colorazione di lamine sottili per il quale si avanza una spiegazione di tipo ondulatorio. La doppia rifrazione viene scoperta e descritta nel 1669 da Erasmus Bartholinus (1625-98) in una nota dal titolo Experimenta crystalli Islandici disdiaclastici quibus mira et insolita delegitur, della quale daremo un breve estratto nei brani antologici.
In un altro case study vedremo come si svilupperà il dibattito sulla natura della luce.
[1] Sul tentativo operato da Galileo, di coinvolgere Cosimo II de' Medici nella presentazione del cannocchiale, sulla reazione da parte degli ambientl accademlci dopo le scoperte astronomiche del 1610 e sul graduale successivo cambiamento nei suoi confronti Ronchi ha condotto un'analisi molto accurata e ampiamente documentata riportata negli Scritti di ottica cit., pp. 267 sgg.
[2] Cfr. il Sidereus Nuncius e Il Saggiatore. Da quest'ultimo riportiamo un signiricativo riferimento all'origine del cannocchiale: «E già noi siamo certi che l'Olandese, primo inventor del telescopio, era un semplice maestro d'occhiali ordinari, il quale casualmente maneggiando vetri di più sorti, Si abbatté a guardare nell'istesso tempo per due, I'uno convesso e l'altro concavo, posti in diverse lontananze dall'occhio, ed in questo modo vide ed osservò l'effetto che ne seguiva e ritrovò lo strumento: ma io, mosso dall'avviso detto, ritrovai il medesimo per via di discorso».
[3] Accanto a nuove tecniche per il taglio e la molatura delle lenti si avranno alcune innovazioni tra le quali citiamo l'oculare rialzabile per il telescopio terrestre ( 1645) e i sistemi di lenti multiple (1650 ca.). A partire dal 1650, in corrispondenza con lo sviluppo del mercato degli strumenti, si diffondono sempre di più strumenti ottici di precisione. L'uso del microscopio si estende in campo medico e in questo ambito vengono condotte osservazioni di estremo interesse; citiamo tra queste gli studi embriologici di W. Harvey (1651), la scoperta dei globuli bianchi di A. Borelli (1656) e quella, quasi contemporanea, dei globuli rossi di J. Swammerdamm.
[4] Dioptrique, V, cap. I, p. 6, in uvres de Descartes, Paris, Levrault, 1824.
[5] Dioptrique cit., cap. II, p. 62.