OPERE SCELTE

LETTERA QUARTA

Como, li 18. Dicembre, 1776.

Saepe etiam stellas, vento impendente, videbis
praecipites coelo labi, notisque per umbram
flammarum longos a tergo albescere tractus.
                                       Virg., Georg., I, 365.

Quam multa fieri non posse, priusquam sint facta judicantur!
                                   Plin. L. VII. C. I.

Se voi siete assai più delle sperienze e de' fatti amico che della Teorica, come ragion vuole che lo sia chiunque nello studiare le maravigliose opere della Natura mira a nessun altro fine che a quello di venir in cognizione della verità, poca speranza io porto che siate per sapermi alcun grado della lettera precedente. La ho incominciata con una congettura, e passando da una ad un'altra, ho mostrato di tenere in troppo più leggier conto, di quello in che vuolsi averli, i varj fatti, che sparsi qua e là, nè in picciol numero, vi saranno venuti sott'occhio. Non guari però dopo commesso il fallo, ho seriamente pensato ad emendarlo con mettere tosto a cimento alcune mie idee. L'esito è stato di gran lunga più avventuroso che non mi sarei aspettato. Ed ecco riparato in gran parte l'errore con comparire in iscena con una caraffa piena d'aria nella mano destra, e colla sinistra in atto di mettere in moto la macchina elettrica. Apparecchiatevi dunque ad udirmi parlare di fatti, e fatti nuovi, ben più che di congetture. Ho detto ben più, perchè se a voi di leggieri consento la libertà di valutare le mie ipotesi non pure per ciò che valgono intrinsecamente, ma per quanto vi piace di stimarle; a buon diritto dovete accordarmi la permessione di avventurarne alcuna, così di soppiatto, e di passaggio, eziandio in questa lettera.
Mi venne talento di pigliar prova, se per mezzo del solo fuoco elettrico succedea di far avvampare l'aria infiammabile. I primi saggi, a dir vero, non riuscirono a così lieto fine, che la speranza da me conceputa ne fosse gran fatto lusingata, ma pur una volta giunsi a dar nel segno. Voi vi darete tosto a credere, che a ciò sarà stato d'uopo d'un'elettricità vigorosissima, quale il più delle volte si richiede, perchè si accendano lo spirito di vino, e gli oli, eh? No, non vi apponete al vero. Non si ricerca altro che una mediocre dose di destrezza, segnatamente per infiammare l'aria delle Paludi, sulla quale l'esperimento non viene ad effetto se non se in certe combinazioni. Quanto all'aria tratta da' metalli per via di scioglierli in un liquore acido, si ottiene l'intento troppo più agevolmente che persona non crederebbe. Io non fo che presentare la bocca d'una caraffa piena di quest'aria allo Scudo alzato del mio Elettroforo grande. La scintilla, e talvolta pure il solo fiocco che spunta sul labbro del vaso (il quale avvegnachè di vetro, ciò non ostante per essere o umido o bagnato, attrae bastantemente il fuoco elettrico) mette quell'aria in fiamma, e a più riprese, e con iscoppi alternati, appunto come sarebbe avvenuto, se io v'avessi appressato interrottamente la fiamma d'una candela. Ma perchè adoperando in cosiffatta guisa avviene più volte che non s'appigli fuoco all'aria, per più sicuramente riuscirvi, ho pensato d'incamiciare internamente la caraffa, la quale vuol essere di bocca anzi ampia che stretta, e di adattarvi un grosso filo di ferro, di cui un capo tocchi il fondo, o l'armatura interiore, e l'altro mediocremente ottuso, o terminante in palla stia sotto per poco all'orlo. Disposte per tal modo le cose, se io la presento al conduttore, il fiocco, o la scintilla spicciando con più d'empito e di vigore, falla ben rade volte d'infiammare l'aria. Tal fiata succede, è vero, che uno, due, e ben tre colpi scoccati contro il labbro del vaso, o il filo di ferro ond'è armato, non bastino tuttavia a destar la fiamma, che poi viene fuori, e sì con iscoppio, sol che gli si accosti un dito, per virtù della piccola scarica del vetro elettrizzato, la quale si fa sentire dal dito con una leggiera puntura. Se l'esperimento è diffatti, come a me pare che sia, non poco grazioso, è ciò non pertanto vinto d'assai in eleganza dal fenomeno che appare, ove io avvicini al conduttore elettrizzato il beccuccio del sifone innestato nel collo d'una caraffa, in cui bolle furiosamente l'acido vitriolico intriso con limatura di ferro. Le scintille elettriche dardeggiate dal conduttore, e talora il solo fiocco, o la stelletta appiccano fuoco all'aria che zampilla dal beccuccio, e la fiamma apprésavisi una volta, dura a balenare, e consuma il novello pascolo che a mano a mano va incessantemente sgorgando. Se nell'atto che la fiamma più vivamente avvampa, io la soffoco turando col polpastrello d'un dito l'orificio del tubo, e indi a non molto rimuovo il dito, avviene sovente ch'ella di bel nuovo, e come d'improvviso da per sè stessa si raccenda, e ciò a varie riprese, secondo che si alterna il chiudere e l'aprire la bocca del tubo. Lo stesso spettacolo puossi, mediante un cotal poco di destrezza, far nascere, e a certi riguardi con più vantaggio, mungendo, per così dire, l'aria infiammabile da una vescica che ne sia piena, e nella cui bocca sia stato inserito un cannello. La facilità con cui s'accende per mezzo della scintilla elettrica l'aria infiammabile de' metalli, mi ha aperto il campo, variando in cento maniere l'esperimento, ad ottenere effetti sempre varj, e talora strani, nè dubito punto che ottener non se ne possano di assai più curiosi. Ma la mia aria infiammabile delle Paludi essendo assai più restia e pigra ad infiammarsi, come già ho altrove accennato, rade volte m'è venuto fatto di farla avvampare senza ricorrere a certi artifici, o senza servirmi d'un particolare apparato. Ecco il più semplice, e insieme quello che ben poche volte mi ha mancato. Dal gran conduttore d'una macchina elettrica comune sporge un filo d'ottone che va a finire in una pallottola; un'altra simile palla annessa pure ad un filo metallico, che comunica col terreno, giace in distanza dalla prima pel tratto di un buon pollice, e un pochetto più sotto. I due fili sono ripiegati in maniera che le palle possano entrare nella bocca d'una giarra assai alta, e larga due pollici, ma senza toccarne il labbro. Quando la macchina è in azione, e le scintille scoccano da una palla all'altra, conviene presentare la bocca della giarra piena d'aria infiammabile e ricevervi dentro le due palle, così che le scintille striscino, per modo di dire, da un punto del labbro all'altro che gli sta di contro, ossia dalla palla più eminente, a quella ch'è alquanto più immersa dentro alla bocca.
Tutte queste esperienze, a cui ho dato mano pochi giorni addietro, e che ho divisato di continuare e variare in più altre forme, mi si pararono da prima alla mente in conseguenza della congettura propostavi in una delle lettere precedenti, là ove ho toccato di volo l'origine e la natura del Fuochi fatui considerati come una sola e istessa cosa coll'aria infiammabile spremuta dal terreni paludosi: congettura se non inverisimile, certamente allora poco più che probabile, conciossiachè sconosciuta fosse per anco la cagione del loro accendersi. E se fin da quel tempo non mi dispiacque l'ipotesi, avuto solo riguardo alla smisurata copia d'aria infiammabile, che incontrasi ovunque l'acqua abbia per alcun tratto di tempo impaludato (e in cotali luoghi l'aria scaturisce anche spontaneamente), quanto non mi dovrà piacere ora che avendo discoperto nell'Elettricità una cagione tutta naturale del suo infiammamento, non manca più nulla a rendere compiuta ragione del fenomeno?
Dite, potea l'Elettricità atmosferica venire più opportunamente all'uopo nostro? dessa che non pure in tempo di procella, o d'aria turbata e nuvolosa, ma a Ciel sereno e tranquillo domina costantemente, e procede con quel giornaliero regolare periodo, che il celebre P. BECCARIA, dopo lunghe accuratissime osservazioni ha scoperto, e ci descrive in un suo Opuscolo intitolato: Dell'Elettricità terrestre-atmosferica a Ciel sereno 1775. In questo periodo egli dimostra, come la guazza ne adduce ognora maggior grado di elettricità: il che conviene appunto coll’apparire de' fuochi di cui si ragiona.
Ma ove sono elleno, parmi d'udirvi dire, le vampe o almeno le vive scintille che questa blanda e giornaliera Elettricità sparge e diffonde, perchè possa venir riputata idonea ad accender l'aria infiammabile? Chi mai può attestare d'averle vedute? Più d'uno, io ripiglio, le ha vedute. Le stelle cadenti, cui il surriferito Autore, in una recente lettera diretta al Sig. Le Roy (1) , s'argomenta di dimostrare provenienti dal fuoco elettrico della rugiada, una delle quali, già tempo, gli venne veduta lanciarsi e finire nel Cervo volante e un'altra non dissimile farsi incontro a lui seduto sull'erba, e scesa fino rasente il suolo spiegarsi, e sparire lampeggiando, mentre nel giardin vicino fu osservata balenare e raggiare ancor più vivamente, e i rigagnoli onde quello era inaffiato (2) scintillaron tutti ad un tratto, e tant'altri fuochi della stessa o di non gran fatto dissimile natura corsi agli occhi in varj tempi e luoghi a diverse persone, ne fanno poco men che sicuri, che l'Elettricità ancor senza nembi e tuoni giugne talvolta a sfavillare in questa nostra più bassa regione. Quale maraviglia pertanto, se quivi s'avvenga alcuna fiata in una massa d'aria infiammabile, bell'e preparata e l'accenda? Siccome però rade sono queste stelle cadenti, o scintille elettriche striscianti fino a terra, così non già sovente, ma anzi più di rado avverrà che veggansi i fuochi fatui.
Ma i fuochi fatui durano alcuno volte assai tempo fissi in un luogo. Che perciò? Interverrà quello che si è veduto occorrere nello sperimento del cannello e della vescica, dureranno cioè ad ardere, finchè nuova aria infiammabile sfumi da terra nel luogo medesimo. Nè mi si domandi qual sia la cagione, che faccia schizzare cotest'aria. Molte esser possono, ed è facile a chichessia l'imaginarne a sua posta di verisimili. Quando poi (e questo sarà il caso più comune) i Fuochi fatui appajono lambenti, e qua e là saltellanti, per darvene la spiegazione, v’invito al mio sperimento di solcare e foracchiare qualche terreno ricco d'aria infiammabile, e tosto presentarvi una sola volta un candelino acceso; e ne rimarrete pago.
Altre particolarità sull'indole de' Fuochi fatui, e le minute circostanze onde vengono accompagnati, voi mi dite, ed io troppo chiaramente lo veggo, dovrebbero qui chiamarsi ad un rigoroso esame; ma egli è assai facile ch’altri sia più in istato di addossarsi tale impresa, ch'io nol sono, perchè non mi venner veduti mai nè da vicino nè da lontano fuochi di tal natura, e ora non posso se non parlare di quelli che io stesso ho alla mia maniera artificiosamente eccitati ed accesi. Aspetteremo pertanto che molte osservazioni fatte con diligenza, ajutate dalle cognizioni presenti, e combinate colle nuove viste che ora osiamo di proporre, confermino o veramente distruggano le nostre idee. Sono ec.

(1)Scelta d'opuscoli interessanti. Vol. XXI.
(2) Alle 8. ore, e 30'. del dì 28. di Settembre 1756. dopo molti tentativi mi è riuscito di far salire tra'1 buio della notte il cervo volante a grande altezza; e tostamente un lampo inopinato, non molto ampio nè molto veloce si scagliò dalla parte di levante verso il capo del cervo volante, che dal vento ora spinto verso tramontana. Nella velocità, come io diceva, non mi parve, che avesse il moto subitano del lampo; giacchè potei discernere il luogo, da cui veniva, e il termine, nel quale si smarrì; cioè vidi che illuminò il cervo volante massime nell'angolo orientale, e quella luce non passò oltre; neppure mi sembrò, che esso, come sogliono i lampi, si spiegasse assai ampiamente; aveva alcuna cosa della tardità, e della strettezza delle stelle cadenti.
Queste qualità, principalmente l'essersi esso diretto, e smarrito nel cervo volante, me gli fecero attribuire l'indole del fuoco elettrico; per mala sorte io non aveva per anche isolata la cordicella, il che forse avrebbe potuto soddisfare ad alcuna parte della mia curiosità, e il vento poco dopo mancò, sicchè fui obbligato a raccorre la cordicella.
L'accidente del lampo mi richiamò a memoria una osservazione, in cui fortuitamente mi era avvenuto sulla fine di Agosto del 1753., mentre godeva la villeggiatura del nobile e dotto Abb. MONTICELLI nella campagna di S. Firmino lontana da Saluzzo due miglia circa. Una sera, una buon'ora dopo tramontato il Sole, ne stavamo amendue a sedere sul ciglio di un prato, quando inopinatamente vedemmo una verissima stella cadente a discorrere il cielo da ponente, e dirigersi verso noi. Ne volgemmo l'uno verso l'altro per avvisarne di quell'accidente; ma appena ebbimo formata parola, che ammutolimmo amendue sopraffatti dallo strano inaspettatissimo fine dell'accidente medesimo. La stella cadente giunta a certa non grande distanza dal luogo, ove sedevamo (perciocchè mi sovvengo, che io la vidi a farsi vieppiù grande. ed a scagliarsi con alcuna obbliquità verso di noi) scomparve; ma nello stesso indiscernibile istante ne vedemmo e il viso e le mani, e le vestimenta nostre, e il terreno, ed alcuni oggetti vicini illuminati da un subitano ampissimo innocente lampo, a cui non succedette nessunissimo rumore. Stavamo per anco amendue sospesi per quello strano caso, quando uscì dal non lontano giardino un servo, che ne addimandò se avevamo veduto nulla; che egli aveva veduto una rapida luce a splendere sul terreno del giardino, e massimamente su i rigagnoli d'acqua, che egli stava dirigendo per inaffiarlo. Dell'Elettricismo terrestre atmosferico. 1757. pag. 110.