La camera oscura, l’occhio e gli effetti della «lentecchia
di cristallo»
In particolare, per lo sviluppo dell'ottica, la
scoperta (o la riscoperta) delle «lenticchie di vetro» avrà un'importanza
notevole. Importate probabilmente dall'Islam si erano diffuse lentamente in
Occidente già da tempo. Alla fine del 1200, in una fase di espansione
dell'industria vetraria veneziana, compaiono in Italia, forse per la prima
volta, gli occhiali per correggere la presbiopia. Una documentazione precisa
sull'argomento tuttavia non esiste poiché, come hanno messo bene in evidenza le
analisi di Vasco Ronchi [1]
le lenti da occhiali sono dovute alla pratica di artigiani e di esse e
difficile ricostruire l'origine storica. L'uso scientifico delle lenti per
correggere la vista fu osteggiato dalla comunità dotta tardo-medievale sulla
base delle teorie filosofiche e ottiche dell'epoca. Si pensava infatti che esse
appartenessero al mondo delle «illusioni ottiche», un dominio di fenomeni ai
confini della magia estremamente sospetto per una scienza della visione che
aveva cosi strette connessioni epistemologiche e teologiche. Non c'e dunque da
meravigliarsi se, in questa sezione, da una parte presenteremo dei brani
riguardanti l'attività di un artigiano, per quanto geniale e illustre come
Leonardo, e dall'altra faremo riferimento a un testo di magia naturale, quello
di Della Porta.
Per quel che riguarda la tradizione dotta, va
infine rimarcato l'unico contributo di rilievo, quello di Francesco Maurolico
da Messina (1494-1574), un frate originario di Costantinopoli che ben conosceva
l'opera di Alhazen. Purtroppo l'opera di Maurolico, pubblicata postuma, non
ebbe influenza fra i suoi contemporanei e quindi si configura come l'illuminato
contributo di un pensatore minoritario e isolato. Esempio più rappresentativo
della tradizione dotta e la traduzione e il commento in italiano dell'opera di
Euclide (1573) da parte di Egnazio Danti (1536-86), cosmografo del duca di
Toscana. Lo stile erudito, le disquisizioni ancora legate alla filosofia
scolastica, il rifiuto delle posizioni scientifiche piu recenti e raffinate ne
fanno un interessante documento della vita accademica alle soglie della
rivoluzione scientifica.
Come abbiamo accennato, la scoperta delle lenti
di vetro fu molto probabilmente dovuta al caso e per lungo tempo esse non
costituirono oggetto sistematico di studio: nei principali testi di ottica
dell'epoca non vengono menzionate e quando infine Delia Porta ne parla nel De
Refractione (1593) ne da una spiegazione fondamentalmente erronea. Esse,
dicevamo, fanno piuttosto parte del patrimonio sperimentale degli artigiani: lo
stesso termine «lenti», derivante dall'analogia con la forma delle lenticchie,
aveva un'origine essenzialmente popolare e muta nel termine piu aulico di
«specilli» quando le lenti entrano a far parte della tradizione dotta. Il fatto
che l'uso delle lenti tardò a lungo a essere introdotto nell'ambito scientifico
deriva in primo luogo dai molti e ardui problemi interpretativi che esse
ponevano. Infatti, secondo le teorie correnti, la vista doveva permettere di
conoscere la verità sia per mezzo delle species emanate dall'oggetto che per
mezzo dei raggi visuali emessi dall'occhio. Il percorso naturale di entrambi
era quello rettilineo e non v'era ragione di introdurre, tramite le lenti,
modifiche a questa traiettoria. Il ritenere che queste modifiche non portassero
che a illusioni va attribuito all'incapacità dell'ottica tardo-medievale di
spiegare teoricamente alcuni evidenti fenomeni di riflessione e di rifrazione
su superfici sferiche. Infatti era noto fino dall'antichità che raggi paralleli
incidenti su uno specchio concavo nella direzione del suo asse danno luogo a un
fascio di raggi riflessi che inviluppano una caustica, cioe non convergono in
un fuoco ma si distribuiscono su una superficie. Non era possibile spiegare, ad
esempio, come si potesse osservare in uno specchio concavo diretto verso il
cielo le figure degli astri. Lo stesso avveniva per la rifrazione attraverso
sfere o semisfere di vetro: i raggi rifratti intersecavano l'asse in punti
differenti. Questi problemi non risolti ritardarono così lo studio delle lenti,
considerate sistemi ottici ancora piu complessi.
Leonardo
Per quanto riguarda il contributo di Leonardo da
Vinci (1452-1519), di difficile inquadramento teorico per il carattere
eterogeneo e non sistematico ma di grande interesse ricordiamo una serie di
osservazioni per lo più di ottica fisiologica, connesse a studi di prospettiva.
Tra queste vi è lo studio sulla variazione dell'apertura della pupilla in
funzione della quantita della luce entrante: «l'occhio dell'omo raddoppia in
tenebre la sua popilla». La camera oscura viene messa in corrispondenza con
l'occhio ma, poiché Leonardo non ne conosce perfettamente l'anatomia, i termini
di paragone risultano non corretti. In particolare il cristallino viene assunto
sferico e ritenuto sede del raddrizzamento delle specie che entrano capovolte
nella pupilla.
I problemi della riflessione e rifrazione da
sfere e semisfere di vetro vengono avviati a soluzione da padre Maurolico. La
sua opera, un breve trattato scritto tra il 1521 e il 1555, fu pubblicata solo
nel 1611 con le note di padre Clavio, membro del Collegio Romano. Il libro si
compone di due parti, i Photismi de lumine et umbra ad perspectivam, et
radiorum incidentiam facientes e le Diaphanorum, seu trasparentium partes. In
esso l'autore si interesso di quasi tutti gli aspetti dell'ottica e della
visione: l'illuminazione di fasci in condizioni diverse, la formazione delle
ombre, la riflessione su specchi piani e sferici, la rifrazione su lamine a
facce pianoparallele, su prisma e su sfere di vetro, l'arcobaleno, l'anatomia
dell'occhio, il funzionamento delle lenti da occhiali. L'opera di Maurolico e
atipica nel panorama del '500: sorpassa di gran lunga quella di Della Porta, e
precorre con straordinaria somiglianza quella fondamentale di Keplero tanto che
Ronchi adombra la possibilita che questi possa aver avuto a disposizione un
manoscritto di Maurolico nella fase di stesura dei Paralipomena [2].
Di grande importanza è la definizione di raggio: superando il concetto di species
Maurolico afferma che da ogni punto del corpo luminoso vengono emessi in tutte
le direzioni e con continuità raggi luminosi; l'autore inoltre sostiene, sia
nel caso della riflessione da specchi concavi che nel caso della rifrazione
attraverso sfere di vetro, che i raggi riflessi e rifratti formano un cono con
il vertice sull'asse. Riguardo alla rifrazione accetta pero la proporzionalità
tra angolo di incidenza e di rifrazione, legge che sappiamo essere vera solo
per piccoli angoli. Infine, nello studio dell'occhio e delle lenti, Maurolico
stabilisce un'analogia tra il cristallino e le lenti convergenti di vetro e
attribuisce i difetti della vista alla forma del cristallino.
Una valutazione a parte va fatta per Giovan
Battista Della Porta non tanto per i suoi contributi teorici e sperimentali
alla teoria della luce, del resto assai ridotti, quanto per la divulgazione di
alcune applicazioni pratiche dell'ottica. Nella Magia Naturale [3]
l'autore espone una serie di esperimenti curiosi con lo scopo di stupire il
pubblico, in particolare nel libro XVII, illustra esempi di trucchi e di
illusioni ottiche realizzati con specchi e lenti. Quel che e necessario
rilevare in questo libro e il mutato atteggiamento nei confronti delle lenti, considerate
dai piu «ordigni fallaci» e ingannevoli, deformanti la realtà. Della Porta, al
contrario, ne proclama l'utilità e ne descrive le molteplici applicazioni come
strumento che potenzia l'organo della vista. Va rilevato tuttavia ancora una
volta che, sebbene l'autore faccia spesso appello alla pratica sperimentale, il
libro non ha una veste scientifica in senso stretto ma piuttosto e orientato
verso la pratica magica. Ciò chiarisce la tendenza da parte dell'autore a
evidenziare gli aspetti prodigiosi e apparentemente inspiegabili dei fenomeni
ottici. Del resto la Magia Naturale di Della Porta esemplifica assai bene gli
orientamenti scientifici della seconda metà del '500 in cui la critica serrata
ai dogmi medievali aveva lasciato spazio ad atteggiamenti di tipo magico. I
confini tra magia e filosofia naturale erano divenuti labili, spesso
indistinguibili, e a risolvere i problemi ai quali la ricerca scientifica non
sapeva dare risposta, interveniva la pratica magica.
«La magia naturale, — citando uno studioso
dell'epoca, — non è altro che il potere principale di tutte le scienze
naturali, per cui la nominano come la vetta e la perfezione della filosofia
naturale, di cui e invero la parte attiva che con l'aiuto delle forze e delle
facolta naturali e mediante la loro applicazione mutua e opportuna, realizza
quelle cose che sono al di sopra della ragione umana» [4].
Si deve però osservare, e Della Porta lo sottolinea in prima persona, che la
magia naturale è diversa dalla magia nera: mentre la prima cerca di spiegare
fatti occulti per mezzo degli usuali strumenti di indagine ed è diretta a buon
fine, l'altra è «infame, e infelice poiché ha a che fare con spiriti immondi e
consiste di incantamenti e di curiosità perverse». Oggetto di studi della magia
naturale sono le forze di simpatia e antipatia, ritenute dominanti in natura,
la teoria delle segnature che fa corrispondere all'aspetto di un corpo naturale
una proprietà curativa da esso suggerita, le virtù delle pietre e delle piante,
le attrazioni magnetiche, le illusioni ottiche.
In questo atteggiamento, ai confini tra la
credulità popolare e la curiosità scientifica si possono individuare elementi
prescientifici che apriranno la strada al metodo sperimentale e alla scienza
classica: fra essi il ricorso costante all'osservazione dei fenomeni, che
spesso, al di la di qualsiasi pratica spicciola e di tipo rituale, si configura
come un'indagine sperimentale in piena regola. Nella Magia Naturale di Della
Porta si ritrovano tutti questi elementi.
Le letture che presentiamo, dal XVII libro della
Magia Naturale, testimoniano questo
approccio particolare. Da notare, per quel che riguarda più direttamente
l'ottica del tempo, l'analogia tra una camera oscura fornita di lente e
l'occhio. La sede dell'immagine, erroneamente assunta nel cristallino, è
assimilata alla parete su cui si proiettano le immagini. Nel capitolo XI
l'autore menziona le lenti col termine dotto di specillum e polemizza con gli
scienziati che non ne hanno saputo spiegare le proprietà. In questo capitolo, inoltre,
c'è un famoso brano in cui alcuni commentatori hanno voluto vedere
un'anticipazione del telescopio galileiano; ma Ronchi smentisce questo punto di
vista interpretando la combinazione della lente concava e di quella convessa
come un sistema per correggere l'astigmatismo. Nel capitolo IX, infine Della
Porta fornisce una confusa descrizione dell'uso delio specchio concavo per
costruire un telescopio.
Nel commento all'Ottica di Euclide, Egnazio
Danti affronta i problemi della scienza della visione da un punto di vista
molto più «classico». Nelle letture riportiamo i commenti ai primi due assiomi.
Il raggio visuale viene definito come linea retta uscente dall'occhio, in
analogia con il raggio luminoso che porta la luce dal corpo luminoso al «corpo
oppostoli». Pertanto si stabilisce una distinzione tra la linea geometrica
«senza larghezza alcuna» e la linea prospettica che «avendo pur la larghezza
nella quantità fisica appresso i Matematici sarà stimata superficie».
É importante asserire che ciò nonostante per
Danti la prospettiva può essere considerata come scienza perchè la «visualità»
della linea non ne costituisce «una differenza accidentale ma una ragione
formale». A proposito della direzione dell'emissione, Danti passa in rassegna
le differenti posizioni e giustifica la sua preferenza per quella di Euclide e
dei «matematici» con alcuni riferimenti a Galeno e alla similitudine dei raggi
uscenti con il senso del tatto, ma ancor più con la constatazione che entrambe
le ipotesi sono in accordo con i teoremi della prospettiva. Completamente in
disaccordo con la perspectiva
trecentesca è invece la constatazione dell'intervallo spaziale che separa i
raggi visuali che colpiscono l'oggetto. Questa distanza, che è giustificata
dall'angolo che i vari raggi hanno tra loro uscendo dall'occhio, è contraria
agli sviluppi dell'analisi della visione sulla base della corrispondenza
punto-punto tra oggetto e occhio, analisi che abbiamo spesso richiamato.
Inoltre, nella «seconda suppositione» Danti mantiene ancora l'idea che la base
del cono visuale circoscriva la cosa vista, e che si vedano più distintamente
le cose sotto angoli maggiori. Le argomentazioni di Danti sono in profondo
contrasto, metodologico e di contenuto, sia con quelle vivissime di Leonardo, provenienti
dalla pratica artigianale, sia con quelle «scientifiche» di Maurolico che
sviluppano le tematiche «perspettiviste», sia con quelle magico-sperimentali di
Della Porta.
L'incontro degli elementi più vitali di queste
tradizioni avrebbe posto di lì a poco il mondo accademico di fronte a una
svolta, probabilmente la più importante nella storia della scienza.
[1] Cfr. Ronchi, La
storia della luce cit., cap. III e, dello stesso autore (a cura di), Scritti di ottica, Milano, Il Polifilo,
1968, p. 135.
[3] Pubblicata per la prima volta nel 1558 in 4 libri, la Magiae Naturalis è stata ripubblicata,
sempre in latino, nel 1611. Di quest'opera, che trovò un vasto seguito di
pubblico, vennero fatte numerose riedizioni e traduzioni.