Newton

 

Newton inizia a occuparsi dei fenomeni luminosi verso il 1660 quando il dibattito intorno alla natura della luce, come abbiamo già visto, è assai vivo. Le vicende di Galileo e del cannocchiale avevano avuto una grande risonanza negli ambienti accademici e in seguito a ciò gli interessi relativi alle tecniche di costruzione degli strumenti ottici erano sensibilmente cresciuti. Uno dei problemi che più si dibattevano nel periodo, riguardava l'aberrazione cromatica negli obiettivi del telescopio che si pensava dovesse dipendere dalla forma delle lenti [1]. Nel tentativo di risolvere il problema il giovane Newton esamina la possibilità di eliminare il difetto usando lenti coniche ma nello stesso tempo va ad analizzare le cause che producono il cromatismo. Da questi tentativi nascono, da un lato, la progettazione e la costruzione di un telescopio a riflessione che usa in luogo di lenti uno specchio sferico concavo [2]; dall'altro la teoria dei colori che viene considerata dallo stesso Newton «la più grande, se non la più importante scoperta finora fatta nelle indagini naturali» [3].

Il problema dei colori era stato oggetto di numerose speculazioni nel corso della storia dell'ottica. Lo stesso Newton, in una breve analisi, aveva esaminato le principali interpretazioni classiche e contemporanee e le aveva giudicate del tutto insoddisfacenti: nel primo caso poiché esse corrispondevano a pure definizioni verbali, scorrelate da qualsiasi osservazione sperimentale; nel secondo poiché le spiegazioni proposte tendevano a collocare l'origine dei colori nei corpi sui quali la luce agiva piuttosto che nella luce stessa. «Coloro i quali fino ad oggi hanno dissertato sui colori, — afferma Newton, — o lo hanno fatto con parole, come i peripatetici, ovvero, come gli epicurei e altri più moderni autori che si sono industriati di indagarne le cause e la natura. Ciò che i peripatetici insegnavano riguardo ai colori, anche se fosse esatto, non ha alcuna importanza per il nostro fine, poiché essi non si occupavano ne del processo attraverso il quale nascono i colori ne delle cause della loro varietà. [...] Quanto all'opinione di altri filosofi, essi ritengono che i colori nascano o da una differente mescolanza dell'ombra con la luce, o da un ruotare di sfere, o da vibrazioni di un determinato mezzo etereo[4]. [...] Tutte queste asserzioni contengono un errore comune, e cioè quello secondo il quale la modificazione della luce che produce i colori, non le sia propria dall'origine, ma sia acquistata nella riflessione o nella rifrazione. [...] Io ho trovato, al contrario, che la modificazione della luce, dalla quale derivano i colori, e una proprietà innata della luce [...] e non può essere distrutta ne mutata in alcun modo» [5]

Con questa affermazione Newton rovescia completamente le concezioni fino ad allora avanzate: ai colori viene attribuita, per la prima volta, dimensione fisica sottraendo a essi quegli aspetti soggettivi e fisiologici che ne avevano condizionato l'indagine. Le assunzioni più rilevanti, contenute nella memoria A new Theory about Light and Colours, inviata da Newton alla Royal Society all'inizio del 1672 sono le seguenti: la luce bianca non è omogenea ma è un aggregato di raggi aventi diverso grado di rifrangibilità; a ogni grado e associato un colore fondamentale e viceversa al grado massimo di rifrangibilità corrisponde il viola, a minimo il rosso; con un'opportuna strumentazione è possibile separare, senza perturbare, le diverse componenti della luce nei colori primari e successivamente ricomporle ottenendo così nuovamente luce bianca.

La teoria dei colori e stata formulata da Newton per via sperimentale, in un modo che egli considera univocamente deducibile dalle osservazioni. La lettura della memoria, tuttavia, susciterà forti opposizioni principalmente da parte di Hooke, Pardies e Huygens i quali criticheranno in primo luogo proprio la non univocità delle conclusioni rispetto agli esperimenti, e quindi il carattere ipotetico della teoria: l'interpretazione di Newton si accorda con i dati sperimentali ma, secondo i suoi oppositori, non è l'unica possibile. Inoltre, alla fine della memoria, l'autore si era pronunciato, sia pure in forma cautelativa, a favore di una ipotesi sostanziale della luce e ciò portava come conseguenza un pronunciamento a favore di una teoria corpuscolare. Questa disputa, che si trascinerà per oltre quattro anni, esemplifica assai bene due diversi atteggiamenti che si fronteggiano nella comunità scientifica del tempo: da una parte una scuola, di derivazione cartesiana, che da certi presupposti, o ipotesi, sul moto ritiene di poter indagare i fatti, dall'altra un metodo, quello esposto da Newton, che consisterebbe nel dedurre ogni proposizione dagli esperimenti e non da ipotesi a priori.

La risposta di Newton ai suoi avversari tende a sottolineare il fatto che nella sua teoria non è contenuto nulla che non sia stato direttamente dedotto dalle osservazioni e dagli esperimenti e ciò la rende assolutamente inconfutabile. Le sue affermazioni sulla natura della luce, inoltre, non sono essenziali alla teoria: l'interpretazione ondulatoria può conciliarsi altrettanto bene con la natura eterogenea da lui assegnata alla luce. «É giusto, — afferma Newton nella risposta a Hooke, — che dalla mia teoria della corporeità della luce io tragga delle conclusioni, ma lo faccio senza alcuna certezza assoluta, come è dimostrato anche dalla parola "forse". Questa conclusione, nel caso più estremo, non è che una conseguenza assai probabile della mia dottrina e non un presupposto essenziale. Ammettiamo pure che io persista ostinatamente in questa ipotesi; ma anche in tal caso, non posso comprendere perché il mio avversario le muova tali obiezioni. Questa ipotesi si avvicina alla sua assai più di quanto egli non creda. Le vibrazioni dell'etere sono ugualmente utili e necessarie sia nell'una che nell'altra ipotesi. [...] Le particelle vibranti dei corpi luminosi a seconda della loro differente grandezza, forma e moto provocano nell'etere vibrazioni di differente profondità o ampiezza [6]. Se queste vibrazioni, senza separarsi, attraverso il mezzo arrivano al nostro occhio, provocano la sensazione del color bianco, ma se in un modo qualsiasi vengono tra loro separate, corrispondentemente alla loro disuguale grandezza provocano la sensazione dei vari colori; le vibrazioni più forti provocheranno il rosso, le più deboli, o corte, il violetto, le vibrazioni intermedie a loro volta i colori intermedi. É naturale supporre che le vibrazioni più forti siano le più adatte a superare la resistenza delle superfici rifrangenti; perciò penetrano con la minima rifrazione. Così dall'ipotesi stessa si deduce la differente rifrazione dei differenti colori. [...] A me sembra che queste siano conseguenze chiare, immediate e necessarie dell'ipotesi, e concordano così bene con la mia teoria che, se il mio avversario le ritiene giuste, non deve temere il crollo della sua ipotesi. Non so tuttavia in qual modo egli possa difendere la sua ipotesi da altre difficoltà. A mio giudizio, la sua tesi principale, secondo la quale onde o vibrazioni di qualsivoglia fluido si propagano in linea retta senza inflessione né diffusione nel mezzo a riposo dal quale sono circondate, e impossibile. O mi sbaglio di grosso, o l'esperimento è l'osservazione conducono a una conclusione opposta» [7].

Nel 1675 Newton, ammaestrato dagli anni di lunghe polemiche, ripresenterà una nuova formulazione della sua teoria in cui non compare più alcuna ammissione esplicita relativa ai corpuscoli di luce; egli parlerà solo di «raggi che si distinguono tra loro per fattori contingenti, come grandezza, forma o forza» [8]. Nella memoria ricompare l'ipotesi di compromesso tra concezione corpuscolare e ondulatoria che si era andata delineando anni prima nel carteggio con Hooke. É necessario tuttavia osservare che Newton non propenderà mai per un'ipotesi puramente ondulatoria poiché in base a essa non si sarebbe potuto spiegare, a suo giudizio, né la propagazione rettilinea della luce né la formazione delle ombre dietro gli ostacoli; al contrario, la rappresentazione di una luce composta da corpuscoli sarà sempre presente nella sua concezione.

Gli studi di ottica di Newton, condotti negli anni che vanno dal 1670 al 1690, vengono raccolti e pubblicati nel 1704 in un trattato dal titolo Opticks, or a Treatise of the Reflexions, Inflexions and Colours of Light [9]. Il testo si compone di tre libri il primo dei quali tratta problemi che oggi definiremmo di ottica geometrica, di dispersione e di composizione della luce bianca; il secondo espone i fenomeni di interferenza della luce nelle lamine sottili; la diffrazione, la polarizzazione e una serie di problemi di varia natura, definiti da Newton «questioni» o ipotesi non comprovate, sono infine esaminati nell'ultimo libro. I fenomeni delle lamine sottili, che già erano stati descritti sia pure qualitativamente da Hooke, vengono sottoposti da Newton a una analisi quantitativa estremamente accurata. Le osservazioni vengono condotte con un dispositivo, ormai divenuto classico nello studio degli anelli, costituito da una lente piano-convessa accostata a un'altra biconvessa [10]. L'alternanza degli anelli, specialmente se osservati in luce monocromatica, suggerisce che i raggi luminosi devono poter possedere una qualche attitudine a riflettersi o a trasmettersi periodicamente su una superficie rifrangente, generando così zone chiare e scure: «Ogni raggio luminoso, — scrive Newton nella XII proposizione del libro II, — passando attraverso una qualsiasi superficie rifrangente assume una determinata struttura temporanea, ovvero una condizione che ritorna ad uguali intervalli di tempo durante l'attraversamento del raggio; ogni qualvolta questa condizione si ripete, essa induce il raggio ad attraversare la superficie rifrangente; nell'intervallo fino al ritorno della stessa situazione, il raggio viene riflesso . [...] Non potrei esaminare qui se tale ipotesi sia vera o falsa. Mi contento di aver constatato che i raggi luminosi, per una causa qualsiasi, sono disposti alla rifrazione o alla riflessione». A queste affermazioni Newton aggiunge la definizione seguente: «Chiamerò accessi (fits) di facile riflessione i ritorni della disposizione di un raggio alla riflessione, come chiamerò la sua disposizione ad essere trasmesso accessi di facile trasmissione. L'intervallo di tempo che intercorre tra la condizione dell'accesso di riflessione e di trasmissione lo ho denominato periodo degli accessi».

Il fenomeno di diffrazione, sebbene sia stato osservato da Newton con la sua consueta precisione in una lunga serie di esperimenti analoghi a quelli eseguiti da Grimaldi viene ridefinito dall'autore «inflessione» con ciò negando la possibilità che la luce possa deviare dalla direzione rettilinea passando attraverso fenditure sottili. Il comportamento della luce viene attribuito da Newton a una interazione, di tipo attrattivo o repulsivo, tra raggi e ostacoli diffrangenti. In sostanza viene esteso alla inflessione lo schema interpretativo gia proposto da Newton alla fine del libro I dei Principia (1687) per la rifrazione e per la riflessione. Questi fenomeni erano stati spiegati dinamicamente sotto l'ipotesi che i corpi esercitano sui raggi luminosi forze attrattive o repulsive a corto raggio. Per la rifrazione Newton aveva inoltre dimostrato la validità della legge di Cartesio che aveva dedotto, senza riferimento alcuno alla luce, nel caso più generale di una particella che attraversi una zona dello spazio delimitata da due piani paralleli sui quali agisca una forza perpendicolare costante. Anche l'inflessione viene così ricondotta ad una analoga interpretazione che Newton espone in forma dubitativa nella questione I del libro III: «I corpi non agiscono forse sulla luce anche a una certa distanza, dal momento che diffrangono i raggi luminosi? E a parità di circostanze, questa azione non sarà tanto più forte quanto minore e la distanza?».

Nella questione xxv Newton espone le sue idee sul fenomeno della doppia rifrazione. La costruzione elegante e inattaccabile che Huygens aveva fornito per essa, viene liquidata in poche righe da Newton che tende piuttosto a sottolineare l'insuccesso della teoria ondulatoria nel caso di birifrangenza multipla. In alternativa propone un meccanismo che assegna ai raggi luminosi forme speciali con polarità paragonabili a quelle di piccoli magneti, aventi due piani di simmetria ortogonali passanti per la loro traiettoria. Sebbene l'idea di Newton sia estremamente feconda e implichi immediatamente il concetto di polarizzazione, essa non viene ulteriormente sviluppata.

Nella questione XXIX infine, Newton delinea la concezione corpuscolare della luce: «Non sono forse i raggi luminosi corpuscoli emessi dalla materia luminosa? [...] I corpi trasparenti agiscono a distanza sui raggi di luce rifrangendoli, riflettendoli e inflettendoli. I raggi a loro volta agiscono sul corpo dal momento che, a distanza, inducono le sue parti a movimenti vibratori e le riscaldano. Queste azioni e reazioni sono molto simili ai fenomeni della forza di attrazione dei corpi».   Quanto al mezzo in cui si propaga la luce Newton si dichiarerà a favore o a sfavore dell'esistenza dell'etere a seconda del particolare fenomeno preso in esame. A questo proposito, in una questione aggiunta in una edizione successiva all'Opticks del 1704 affermerà che «indubitabili sono soltanto le proprietà della luce stabilite dall'esperimento. Alcune di esse possono essere interpretate in base all'ipotesi dell'etere, altre invece [...] possono spiegarsi soltanto con il moto delle particelle, tra le quali agiscono le forze di attrazione e repulsione. La cosa più esatta tuttavia, e di non avanzare ipotesi e di descrivere i fenomeni sulla base di esperimenti e osservazioni, secondo il metodo induttivo».

 

 I. Newton, A new Theory about Light and Colours, I, pp.92-99

Nel 1666, anno in cui lavoravo a molare lenti di forma diversa da quella sferica, mi procurai un prisma di vetro triangolare per sperimentare i noti fenomeni dei colori. A tale scopo, dopo aver oscurato la mia stanza e praticato un forellino in una imposta per selezionare in modo opportuno la luce solare, disposi il prisma al suo ingresso in modo che la luce si rifrangesse sulla parete opposta. Da principio era un piacere osservare i colori così prodotti, ma dopo un po', prestando più attenzione al fenomeno, mi sorpresi di vederli disposti in forma oblunga poiché, secondo la legge della rifrazione, mi aspettavo che si disponessero in forma circolare.    Essi terminavano ai lati secondo linee rette ma verso le estremità la diminuzione della luce era cosi graduale che era difficile determinarne con esattezza i contorni; sembravano tuttavia semicircolari. Confrontando la lunghezza dello spettro colorato con la sua larghezza trovai che essa era circa 5 volte più grande, un divario così strano che mi spinse, con curiosità sempre crescente, ad esaminarne la causa. Sebbene dubitassi fortemente che a produrre un tale effetto influenzando la luce, fosse lo spessore irregolare del vetro o la combinazione di buio e ombra, pensai ugualmente di non trascurare tali circostanze e provai così a vedere che cosa sarebbe accaduto se la luce fosse passata attraverso spessori differenti del vetro o attraverso fori della imposta di diversa grandezza o disponendo il prisma esternamente, in modo che la luce lo attraversasse e si rifrangesse prima di passare per il foro: ma nessuna di queste circostanze risultò soddisfacente. Il contorno dei colori risultava lo stesso in tutti i casi.

Allora mi venne il sospetto che i colori si dilatassero a causa di una qualche irregolarità accidentale presente nel vetro e per sperimentare ciò presi un altro prisma simile al primo e lo disposi in modo che la luce, passando attraverso ambedue, fosse rifratta in senso inverso e ricondotta dal secondo nella direzione da cui il primo l'aveva deviata. Pensavo infatti che gli effetti del primo prisma sarebbero stati distrutti dal secondo ma che per la molteplicità delle rifrazioni sarebbero aumentati gli effetti irregolari. Avveniva che la luce, diffusa in forma oblunga dal primo prisma, acquistava con il secondo una forma regolare, come se non avesse affatto attraversato i due prismi. Dunque, qualunque fosse la causa della lunghezza dello spettro, non era dovuta a una irregolarità casuale.

Mi misi allora ad esaminare con maggiore attenzione l'effetto della diversa incidenza dei raggi che provenivano dalle diverse parti del Sole, e a questo scopo misurai i lati e gli angoli dell'immagine [...]. Fatte queste osservazioni e basandomi su di esse, calcolai dapprima il potere rifrattivo del vetro e, misurandolo secondo il rapporto dei seni, lo trovai di 20 a 31. Basandomi su questo rapporto calcolai la rifrazione dei due raggi che provenivano da parti opposte del disco solare, con una differenza di 31' nell'angolo di incidenza, e trovai che i raggi uscenti avrebbero dovuto formare un angolo di 31' come prima dell'incidenza. Ma poiché questo calcolo si basava sull'ipotesi della proporzionalità dei seni [degli angoli] di incidenza e di rifrazione, ipotesi che, data la mia esperienza personale, non potevo considerare talmente erronea da trasformare un angolo di 2° 49' (come era in realtà) a soli 31', fui spinto dalla curiosità a riesaminare il mio prisma. Postolo davanti alla imposta come avevo fatto prima, e facendolo ruotare leggermente attorno al suo asse, muovendolo alternativamente avanti e indietro in modo da variare la sua inclinazione rispetto alla luce incidente di un angolo maggiore di 4 o 5 gradi, notai che, malgrado ciò, la posizione dei colori sulla parete non subiva nessun mutamento sensibile, e che questo cambiamento d'incidenza non portava neppure un mutamento sensibile alla rifrazione. Da questo esperimento, come dal calcolo precedente, risultava evidente che la diversa incidenza di raggi provenienti da parti diverse del sole, non permetteva che, dopo essersi incrociati, essi divergessero con un angolo sensibilmente maggiore di quello con il quale prima convergevano; ed essendo quello per lo più di circa 31' o 32' bisognava trovare quale fosse la causa che lo faceva diventare di 2° 49'. Allora cominciai a sospettare se i raggi, dopo esser passati attraverso il prisma, non si muovessero in linee curve e in base alla maggiore o minore curvatura tendessero in zone diverse sulla parete. E ciò accrebbe il mio sospetto quando ricordai di aver spesso veduto una palla da tennis lanciata da una racchetta obliqua, descrivere una tale linea curva, dato che il colpo imprimeva alla palla un moto circolare ed uno rettilineo ad un tempo e la parte laterale in cui il movimento era impresso premeva l'aria con più violenza in corrispondenza del colpo che altrove, suscitando una resistenza e una reazione dell'aria proporzionalmente maggiore. Per lo stesso motivo, se è possibile che i raggi della luce siano corpi sferici e che nel passaggio da un mezzo all'altro acquistino un moto circolare, essi subirebbero una resistenza maggiore nell'etere circostante là dove i moti cospirano, per proseguire poi il loro percorso nell'altro mezzo secondo una curva. Ma quando esaminai ciò non osservai una simile curvatura. E inoltre, e ciò bastava allo scopo, osservai che la differenza tra la lunghezza dell'immagine e il diametro del foro attraverso cui passava la luce era proporzionale alla loro distanza.

L'eliminazione graduale di questi sospetti, infine, mi condusse all'experimentum crucis, che consisteva in questo: presi due assicelle e disposi la prima davanti al prisma, vicino alla finestra, in modo tale che la luce potesse filtrare attraverso un forellino praticato in essa e cadere sull'altra assicella che posi a circa 12 piedi di distanza e su cui pure avevo praticato un foro per far passare parte della luce incidente. Poi posi un altro prisma dopo questa seconda assicella in modo che la luce, una volta passata per entrambe, passasse pure attraverso il secondo prisma per essere nuovamente rifratta prima di giungere alla parete. Fatto ciò, presi in mano il primo prisma e cominciai a farlo ruotare lentamente intorno al proprio asse da una parte e dall'altra, in modo che le diverse parti dell'immagine proiettata sulla seconda assicella passassero l'una dopo l'altra per il foro presente in essa, in modo da poter vedere sulla parete in quali zone il secondo prisma la rifrangesse. E dalla variazione di quelle zone vidi che la luce che tendeva ad una estremità dell'immagine, nella cui direzione avveniva la rifrazione del primo prisma, nel secondo prisma subiva una rifrazione molto maggiore della luce che arrivava all'estremità opposta. Perciò, la causa vera della dilatazione dell'immagine risiedeva nel fatto che la luce è composta di raggi diversamente rifrangibili i quali, senza alcun rapporto con l'angolo di incidenza, a parità di mezzo, sono più rifratti di altri e perciò si trasmettono attraverso il prisma nelle diverse zone della opposta parete a seconda del loro particolare grado di rifrangibilità.

Dopo aver compreso questo, abbandonai gli esperimenti sulle lenti: mi resi conto, infatti, che la perfezione dei cannocchiali era limitata non tanto per la mancanza di lenti ben lavorate secondo la prescrizione degli ottici, come fino allora si pensava, quanto per il fatto che la luce stessa è un miscuglio eterogeneo di raggi diversamente rifrangibili. Di modo che, se pure esistesse una lente lavorata con tale precisione da concentrare ogni specie di raggio in un sol punto, essa non potrebbe mai concentrare in quello stesso punto quei raggi, che pur avendo un ugual angolo di incidenza, sono disposti a subire una diversa rifrazione. E anzi, vedendo la grandissima differenza di rifrangibilità da me riscontrata, mi stupii che i cannocchiali avessero potuto raggiungere la loro perfezione attuale.

 

I. Newton, A new Theory about Light and Colours, I  pp. 99-102

Adesso parlerò di un'altra notevole anomalia che spiega l'origine dei colori: dapprima esporrò la teoria e poi esaminerò uno o due esempi di esperimenti fatti per poterla provare.

Si comprenderà meglio tale teoria attraverso le seguenti proposizioni:

1. Come i raggi luminosi si differenziano nel grado di rifrangibilità così si differenziano nella tendenza a mostrare questo o quel colore. I colori non sono qualità della luce dovute a rifrazioni o riflessioni sui corpi (come si crede comunemente) ma proprietà originarie e innate della luce stessa, diverse in raggi diversi. Solo alcuni raggi hanno la tendenza a mostrare il rosso, altri il giallo, altri il verde e così via. Non esistono solamente raggi associati ai colori principali ma anche tutti quelli associati alle gradazioni intermedie di colore.

2. Allo stesso grado di rifrangibilità è associato sempre lo stesso colore e viceversa. I raggi meno rifrangibili hanno la tendenza a mostrare il colore rosso e viceversa: allo stesso modo i raggi più rifrangibili hanno la tendenza a mostrare il colore viola scuro e viceversa. Così tutti i colori intermedi hanno gradi di rifrangibilità intermedia. E questa analogia tra colori e rifrangibilità è cosi stretta che i raggi o concordano esattamente o ne differiscono proporzionalmente.

3. Il colore e il grado di rifrangibilità associati ad un dato raggio non si modificano né per rifrazione, né per riflessione sui corpi, né per qualunque altra causa da me osservata. Preso un dato raggio esso ha mantenuto rigorosamente il colore ad esso associato nonostante i miei tentativi per modificarlo: l'ho rifratto con il prisma, l'ho fatto riflettere su altri corpi che mostravano nella luce del giorno altri colori, l'ho intercettato in uno strato colorato d'aria racchiuso tra due lamine di vetro, l'ho fatto passare attraverso mezzi colorati e attraverso mezzi che, illuminati da raggi di diversa natura, lo intercettavano in modi diversi. Neppure una volta sono riuscito a produrre un colore diverso da quello originario. Il raggio, contraendosi o dilatandosi, diventava più o meno intenso e in certi casi, per la perdita di alcuni raggi, decisamente scuro; ma non ho mai osservato un cambiamento nel tipo di colore.

4. E' possibile apparentemente modificare i colori ma solo nei casi in cui ci sia una mescolanza di raggi di tipo diverso. In questo caso, infatti, non si osservano i singoli colori componenti ma questi, mescolandosi, formano un colore intermedio. Se per rifrazione o per qualche altra operazione già detta si separano i diversi raggi presenti nella mescolanza, si producono altri colori diversi da quello associato alla mescolanza stessa. Ma questi colori non sono prodotti dal nuovo: sono solo divenuti visibili per effetto della separazione e se si mescolano di nuovo tornano a comporre il colore di origine. Per questo motivo le modificazioni ottenute mescolando colori diversi non sono reali perché, separando di nuovo i raggi, essi tornano ad avere i colori di partenza. Così, ad esempio, le polveri blù e gialle mescolate insieme appaiono ad occhio nudo verdi ma la modificazione non è reale: se infatti si osserva la miscela al microscopio si continuano a vedere le particelle componenti gialle e blù del loro colore d'origine.

5. Esistono perciò due tipi di colore: gli uni, primari e semplici, gli altri composti. I colori primari sono il rosso, il giallo, il verde, l'azzurro e il viola insieme all'arancione, l'indaco e una varietà indefinita di gradazioni intermedie.

6. I colori primari si possono produrre anche per composizione. Infatti, componendo giallo e azzurro si ottiene il verde, rosso e giallo danno arancione, arancione e giallo-verde il giallo. E in generale, dalla composizione di due colori non troppo distanti nello spettro si ottiene un colore, la cui posizione è intermedia ai due colori, mentre ciò non avviene per quei colori situati a distanze maggiori.

Ad esempio, arancione e indaco non producono il verde ad essi intermedio né il rosso scarlatto e il verde possono produrre il giallo.

7. Ma la composizione più interessante e sorprendente è quella che produce il bianco. Non esiste alcun tipo di raggio che da solo lo possa mostrare. Esso è sempre composto e per la sua composizione sono richiesti tutti i colori prima menzionati in proporzioni dovute. Ho spesso osservato con sorpresa come, facendo riconvergere i raggi separati dal prisma, essi tornassero a mostrare una luce assolutamente bianca che si distingueva da quella solare solo se i vetri usati non erano sufficientemente puri e incolori.

8. Si capisce quindi perché il bianco è il colore normale della luce e che esso è un insieme confuso di raggi di ogni colore che così mescolati vengono emessi dalle diverse parti dei corpi luminosi. Se i colori componenti intervengono in giuste proporzioni, l'insieme risultante è bianco; ma se un colore predomina sugli altri la luce deve tendere a quel colore, come ad esempio succede nella fiamma azzurra dello zolfo, in quella gialla della candela e nei diversi colori delle stelle fisse.

9. Compresi questi fatti è chiaro il modo in cui i colori vengono prodotti dal prisma. Infatti, poiché la luce incidente è formata da raggi che differiscono per grado di rifrangibilità e, quindi, per colore, per rifrazione il fascio si divide e si disperde in una forma oblunga secondo una successione ordinata che va dal rosso scarlatto, che è il meno rifrangibile, al viola. Per lo stesso motivo gli oggetti osservati attraverso un prisma appariranno colorati. Raggi diversi per rifrazione si distribuiscono in diverse parti della retina e ciò suscita le immagini degli oggetti colorati così come formavano l'immagine del sole sulla parete e, a causa della diversa rifrangibilità, non solo essi appaiono colorati ma pure confusi e indistinti.

10. Di qui si comprende anche perché i colori dell'arcobaleno appaiono nelle gocce sospese di pioggia. [ ]

11. Gli strani fenomeni dell'infuso di Lígnum Nephriticum,  delle foglioline d'oro, dei frammenti di vetro colorato e di alcuni altri corpi trasparenti che in una posizione appaiono di un colore e in un'altra di uno diverso, non sono più un enigma; infatti queste sostanze sono tali da riflettere un certo tipo di luce e da trasmetterne un'altra, come si può osservare in una stanza buia illuminandole con luce normale. Allora esse appaiono del colore con cui vengono illuminate ma in una posizione sembrano più brillanti che in un'altra a seconda che riflettano o trasmettano il colore incidente.

12. In questo modo si spiega anche la causa di un esperimento inatteso riferito da Hooke nella Micrographia, realizzato con due vaschette cuneiformi trasparenti riempite una con un liquido rosso, l'altra con uno blu: non appena si ponevano l'una davanti all'altra i liquidi apparivano opachi perché una vaschetta trasmetteva solo il rosso, I'altra solo il blu cosicché attraverso entrambe non poteva passare alcun raggio.

13. Potrei aggiungere ancora parecchi esempi di questo tipo ma concluderò con questo generale. I colori dei corpi derivano dal fatto che i corpi sono in grado di riflettere in misura maggiore solo un certo tipo di raggi. [...] Stando così le cose non si può più discutere se al buio i colori esistano o se essi siano qualità degli oggetti che vediamo e neppure, forse, se la luce sia un corpo. Infatti, se i colori sono qualità della luce il cui soggetto completo e immediato sono i raggi, non possiamo pensare a quei raggi come qualità a meno che una qualità possa essere soggetto di un'altra e sostenerla, ciò che in realtà è definirla proprio sostanza.

Non riconosceremmo i corpi come sostanze se non avessero qualità sensibili e poiché abbiamo trovato che il supporto dei colori sta nella luce e non nei corpi, abbiamo una buona ragione per definirla come sostanza. Inoltre, chi potrebbe mai pensare che la qualità sia un aggregato eterogeneo come si è scoperto per la luce? Ma non è così facile determinare più esattamente ciò che sia la luce, come si rifranga e in qual modo o azione produca nella nostra mente le immagini dei colori; ma non voglio mescolare cose incerte a cose certe.

 



[1] L'aberrazione cromatica dipende dal fatto che l'indice di rifrazione di un mezzo trasparente varia con la lunghezza d'onda della luce: una lente presenta perciò lunghezze focali diverse per i diversi colori della luce di modo che l'immagine di un punto appare circondata da un alone iridescente.

[2] Newton è convinto che l'aberrazione cromatica sia ineliminabile e ciò lo spinge alla progettazione di un telescopio a riflessione che ovviamente è esente dal difetto. Nel 1668 egli riesce a costruire il suo primo telescopio a specchio che presenterà alla Royal Society nel 1671. Nel gennaio del 1672, in seguito a ciò, verrà eletto membro della società. Il telescopio a riflessione era già stato costruito da N. Zucchi  nel 1652.

[3] Cfr. la lettera di Newton a Oldenburg, segretario della Royal Society, del 18 gennaio 1672.

[4]  Nel passo Newton fa riferimento alle concezioni di Cartesio e di Hooke: il primo attribuiva l'origine dei colori alle diverse velocità di rotazione e di traslazione delle particelle d'etere; Hooke giustificava l'origine dei colori con la diversa inclinazione della superficie d'onda rispetto alla direzione di propagazione. L'idea di una produzione dei colori derivante da mescolanza di oscurita e di luce, di tradizione aristotelica, era dominante al tempo di Newton e a essa aveva aderito lo stesso Hooke che attribuiva ai fronti d'onda, più o meno «forti», un diverso grado di luminosità.

[5] Il passo, citato da S. Vavilov, Isaac Newton (trad. it. di G. Panzieri Saija), Torino, Einaudi, 1954, p. 72, è contenuto nelle Lectiones Opticae di Newton.

[6] Per «differente profondità o ampiezza» Newton intende la lunghezza d'onda della luce.

[7] Il brano, citato da Vavilov I. Newton cit., p. III, è contenuto in I. Newton, Correspondence, 167l-72 (a cura di H. W. Turnbull), Cambridge, 1959-61, I, p. 173.

[8] Cfr. An Hypothesis explaining the Properties of Light, in I. B. Cohen (a cura di), I. Newton's Papers Letters on Natural Philosophy and Related Documents, Cambridge (Mass.), 1958, p. 179.

[9] Non è casuale che la pubblicazione dell'Opticks avvenga nel 1704, un anno dopo la morte di Hooke e in un periodo in cui l'autorità di Newton, grazie all'affermazione dei Principia, era pressoché illimitata. Lo stesso autore nell'avvertimento ai lettori afferma di avere rimandato la pubblicazione del trattato «per evitare di essere coinvolto in dispute». Il trattato verra tradotto e pubblicato in latino nel 1706.

[10] Accostando la superficie piana di una lente piano-convessa alla superficie di una lente biconvessa si viene a costituire, nella zona di contatto uno strato d'aria a spessore variabile; illuminando il sistema si ha, come è noto, in corrispondenza del punto di contatto delle lenti, la formazione di frange circolari concentriche di interferenza. In luce bianca si ha la formazione di anelli diversamente colorati mentre in luce monocromatica si producono anelli scuri e colorati. Dalla conoscenza del raggio di curvatura delle lenti Newton calcola geometricamente i diversi spessori dello strato d'aria che separa le lenti stesse; in questo modo può assegnare ad un dato colore uno spessore corrispondente. Stabilisce, inoltre, che i quadrati dei raggi degli anelli colorati devono aumentare come i numeri interi dispari mentre i quadrati dei raggi dcgli anelli scuri devono aumentare come gli interi.