ii. la conservazione della forza di movimento

Quanto più chiare, attraverso il progressivo sviluppo del concetto di sostanza, divennero le relazioni intercorrenti tra materia ed energia, tanto più evidente divenne la necessità di integrazioni da apportare alla tesi della costanza della materia. Un'integrazione essenziale fu rappresentata da una ipotesi, di per sè analoga alla tesi stessa, che poneva in evidenza l'invariabilità dello stato più importante della materia: lo stato di moto. Ora, siccome l'espressione più semplice ed adeguata dell'attività della materia riguardava il suo movimento, così anche il principio di conservazione dell'energia nella sua forma originaria appare come concetto della costanza degli eventi meccanici.

L'origine di questo concetto risale fino all'antichità. Nei sistemi di Democrito e di Epicuro viene spesso posta in evidenza l'ipotesi di un moto eterno degli atomi. Ancora più importante di questa concezione che nel corso dei tempi cadde quasi del tutto in oblio, divenne un'altra idea che, come parte essenziale della filosofia naturalistica dei peripatetici, dominò la fisica e l'astronomia per tutto il medioevo. Essa, in effetti, aveva per oggetto una determinata specie di evento eterno, precisamente l'indistruttibilità degli eventi astronomici. L'antica filosofia della natura separava l'universo in due parti fisicamente tra loro contrapposte: mentre alla Terra toccavano i fenomeni incompleti e mutevoli, il cielo era per i fisici antichi il teatro del divenire perfetto, eterno ed immutabile sotto ogni aspetto, come si evidenzia, dal punto di vista dei pensatori ellenici e anche di quelli medioevali, nel moto sempre uniformemente circolare degli astri[1] .

Un ampliamento essenziale all'idea dell'eterno divenire venne apportato dall'introduzione della legge dell'inerzia. L'antica opinione, la quale poneva la velocità proporzionale alla forza e quindi, anche in assenza di qualsiasi resistenza, considerava estinto con la forza anche il moto[2,] venne a poco a poco lasciata cadere, già nel XVI secolo, dai più autorevoli fisici. Nicola Cusano, Leonardo da Vinci e Benedetti, presso i quali già ritroviamo alcune inconsapevoli applicazioni del non ancora chiaramente intuito principio d'inerzia[3] , rappresentano i più importanti precursori di Galilei, il quale per primo (1638) enunciò in forma definita il principio[4] . Più tardi, specialmente Cartesio e Newton hanno contribuito a che il principio raggiungesse un'importanza fondamentale per la meccanica.

La progressiva conoscenza del potere di persistenza doveva condurre presto ad una generalizzazione del principio d'inerzia. Se il movimento di un singolo corpo abbandonato a se stesso rimane immutato, era ovvia l'idea che anche la totalità del moto presente nell'universo, concepito come chiuso, non fosse suscettibile di aumento né di diminuzione. L'antica concezione di un evento eterno appare con ciò trasferita dal cielo a tutto l'universo. In questa forma, invero, essa è molto più complicata che non in quella originale. Infatti, mentre qualsiasi variazione, addirittura qualsiasi disuniformità nel cielo era per gli antichi da escludere, la concezione, nella sua forma allargata, non poteva trascurare il continuo sorgere e decadere del movimento, le incessanti variazioni meccaniche che in realtà noi osserviamo sulla terra. Le difficoltà che da ciò ne derivavano si poterono appianare solo attraverso l'idea nella quale possiamo propriamente scorgere il nocciolo del principio dell'energia: l'ammissione che ad ogni diminuzione da una parte corrisponda un aumento dall'altra cosicché, ad onta di ogni variazione nel singolo, tuttavia il moto dell'intero, e con esso la forza come sua causa, rappresenti una grandezza invariabile.

Il primo che conferì a questa idea una chiara configurazione fu Cartesio. I pensatori, che prima di lui parlavano di una indistruttibilità del movimento, consideravano sempre solo un sistema di singoli moti coesistenti ma indipendenti fra loro. In questo senso Lucrezio insegna l'eternità del moto degli atomi[5] ed anche presso Gassendi questa visuale appare allargata nella misura in cui egli estende l'idea della conservazione della forza motrice anche a quei casi in cui apparentemente il moto sparisce o insorge. Infatti, quando i corpi costituiti da atomi entrano in quiete, la forza immanente negli atomi, insegna Gassendi nelle sue Osservazioni sul libro decimo di Diogene Laerzio (1647), non viene distrutta ma solo ostacolata; allo stesso modo, essa non nasce improvvisamente dal nulla quando il corpo si mette in movimento, bensì recupera soltanto la propria libertà. Si potrebbe da ciò dedurre, come conclude Gassendi, che nel mondo rimanga continuamente tanta forza ed impulso al moto quanto è stato fin dagli inizi[6] .

Cartesio, che per primo prese in considerazione l'interazione fra i singoli movimenti e risolse il contrasto tra la variabilità del singolo evento cinetico e la conservazione del movimento totale mediante l'idea di una compensazione continua, rivestì anche sotto un altro aspetto grande importanza per lo sviluppo dell'energetica. Infatti invece di parlare come gli altri in generale di una conservazione del movimento, egli introdusse nei suoi Principi di filosofia (1644) una grandezza determinata, matematicamente definibile, e parimenti misurabile come la quantità di materia; egli si sforzò di dimostrare che la sua somma rappresenta una quantità invariabile nell'universo. In tal modo egli per primo ha tentato di conferire una chiara espressione matematica ad un'idea originariamente solo metafisica e di introdurla in questa forma nella fisica esatta.

Questo stesso tentativo, invero, quantunque ricco di validi stimoli naufragò, giacché Cartesio, fuorviato dal principio delle velocità virtuali, introdusse, come misura della forza indistruttibile, il prodotto della massa e della velocità, la quantità di moto, la quale, quantunque variabile nelle sue parti, rimane tuttavia la stessa nella sua totalità. L'esattezza di questa tesi deriva, secondo Cartesio, dalla perfezione di Dio, la quale si rende evidente non solo nell'immutabilità della divinità stessa bensì anche nella costanza delle sue azioni. Se dunque Dio, all'atto della creazione della materia, ha anche conferito alle sue parti movimenti di specie diversa, Sarebbe allora un'ipotesi molto ovvia e ragionevole che Dio, per le stesse ragioni per cui creò la materia, ed allo stesso modo in cui lo fece, mantenesse continuamente in essa anche la stessa quantità di movimento[7] .

Alla visuale di Cartesio si è completamente associato anche Spinoza. Nella sua Rappresentazione geometrica della filosofia cartesiana (1663) formulò il tentativo di dare una rigorosa derivazione matematica del principio della conservazione, che egli formulava e giustificava in modo del tutto analogo a Cartesio[8] Spinoza fonda la sua dimostrazione su tre premesse. Che Dio sia la causa principale del movimento, insegna la prima[9] ; che una così grande causa sia necessaria per conservare qualcosa, come pure per crearla, è il contenuto della seconda premessa[10] ; mentre la terza enuncia che Dio sia massimamente costante nelle sue opere[11]. Dunque, siccome Dio (secondo la prima premessa) sarebbe la causa del moto e della quiete, così egli le conserva, conclude Spinoza, ad opera della stessa potenza con cui le ha create (per la seconda premessa), ed invero nella medesima quantità in chi egli in principio le creò (come si evince dalla terza premessa)[12] . Nelle sue opere principali, Spinoza non menziona affatto il principio; solo nel Trattato di Dio, degli uomini e della loro felicità Spinoza riporta in evidenza l'idea della conservazione della forza. In questo Scritto egli definisce il moto, la materia e la ragione come "le sostanze che da tutta l'eternità sono esistite e per tutta l'eternità rimarranno immutate"[13].

Queste idee di Spinoza ricordano sotto molti aspetti anche i punti di vista che il famoso fisico Roberto Hooke sviluppò in un'opera postuma (1703) sull'eternità di forza e materia. Come totalità delle cose reali, che impressionano i nostri sensi, Hooke considera la materia ed il movimento[14]. Entrambi sono, come egli si esprime, "quello che sono, potenze create dall'Onnipotente per essere ciò che sono ed agire come esse fanno, che nella loro totalità sono invariabili e che ad opera di nessun'altra potenza possono essere accresciute o diminuite, se non di quella che per prima le ha fatte per ciò che sono"[15].

L'idea di un parallelismo tra materia e movimento, che si evidenzia soprattutto nella loro comune conservazione, assurge fino al convincimento di una piena identità nel sistema di filosofia della natura dell'inglese panteista John Toland[16]. Estensione (corrispondente all'incirca al concetto di massa), moto ed impenetrabilità sono, come quel pensatore espone nelle sue Lettere a Serena (1704), le tre proprietà essenziali della materia, senza le quali essa non può essere affatto pensata, i tre diversi modi di considerare uno stesso oggetto. Ora, come i singoli corpi e le loro quantità rappresentano, secondo Toland, solamente singole, limitate determinazioni o modificazioni dell'estensione, così i singoli moti locali, siano essi rettilinei o circolari, veloci o lenti, semplici o composti, sono le singole, in sè variabili, determinazioni del moto totale, per il quale Toland usa la denominazione di azione. Essi, come gli aspetti dell'estensione, possono, per loro cause particolari sorgere o decadere; ma allo stesso modo come siffatte variazioni della determinazione dell'estensione non aumentano né diminuiscono l'estensione totale della materia, bensì la lasciano del tutto invariata, così, secondo Toland, la totalità dell'azione rimane continuamente la stessa nonostante qualsiasi processo fisico [17].

L'ipotesi dell'invariabilità della quantità di forza non fu immune da molti contrasti, che in parte riguardavano la forma che Cartesio aveva dato alla legge, in parte ponevano soprattutto in discussione che nella natura non potessero sorgere nuovi movimenti o che alcunché di quelli esistenti potesse scomparire. Per lo più queste obiezioni facevano riferimento al moto degli animali. Così già Thomas Morus richiamava all'attenzione di Cartesio, in una lettera a lui diretta, che, per lungo, faticoso pensare, potrebbe scaturire un riscaldamento del nostro corpo e da ciò anche un aumento della quantità di moto dell'universo[18]. Voltaire insegnava che i movimenti effettuati da individui o dagli animali sorgevano senza alcuna compensazione di altro genere[19] ed anche il famoso fisiologo Albert von Haller nella sua opera principale discute le diflicoltà che questo fatto arreca alla legge di conservazione, le quali possono essere superate solo attraverso l'ipotesi, formulata da Leibniz, di un'armonia prestabilita[20].

Newton, a sua volta fa riferimento alle continue perdite di movimento causate dalla tenacità dei fluidi, dall'attrito fra le loro particelle come pure dall'imperfetta elasticità dei corpi solidi. Dunque la somma delle quantità di moto nell'universo non sarebbe affatto costante, bensì piuttosto concepita come in continua diminuzione. La continuazione del processo del mondo sarebbe dovuta solo a singoli principi attivi, come la gravità, ma soprattutto la "fermentazione", la quale sarebbe la causa di tutta la vita animale ed inoltre provoca il calore nell'interno della Terra, il calore e la luce del Sole[21] [22]. Anche Voltaire condannò in modo molto deciso la conclusione di molti filosofi, i quali definivano la conservazione della quantità delle forze come una necessità estetica della natura. Ciò sarebbe altrettanto privo di senso, come se qualcuno volesse presentare come una simile necessità anche l'invariabilità della quantità di specie, individui, figure o qualsivoglia altra cosa[23]. Una grossa parte delle obiezioni era rivolta naturalmente anche contro la formulazione che Cartesio aveva dato alla legge di conservazione, particolarmente contro la speciale ipotesi che la somma dei prodotti delle masse per le loro velocità rappresentasse la grandezza invariabile. Già Newton aveva cercato, con un esempio di meccanica, invero di non buona scelta, di dimostrare l'inesattezza di questa affermazione[24].

Gli errori fisico-matematici, che affliggono la legge cartesiana della conservazione, sono stati riconosciuti soprattutto da Leibniz, il quale ha tentato di eliminarli coll'introduzione di una nuova misura delle forze. Come i suoi studi sulla dinamica erano stati stimolati da osservazioni di filosofia della natura così essi operarono altresì in modo straordinariamente fertile per l'ulteriore sviluppo di idee cosmologiche. Pure Leibniz, nelle sue ricerche sulla misura esatta delle forze, ha preso lo spunto dalla concezione cartesiana della conservazione della forza nell'universo. Che accanto alla materia ci sia pure una seconda grandezza, connessa appunto col movimento, e la cui totalità rimanga continuamente la stessa nella natura, era per lui assodato a priori; la forma migliorata della legge di conservazione sarebbe stata, secondo lui, automaticamente determinata con la scoperta dell'esatta misura delle forze. Leibniz ha continuamente tentato di convertire in senso cosmologico i risultati della ricerca meccanica. Così egli, nella sua Dinamica, ha esteso la tesi della costanza della forza in sistemi isolati, a tutto l'universo, dal momento che i corpi in esso contenuti non possono entrare in collegamento con altri[25]. La nozione della conservazione della forza nell'universo è, invero, per Leibniz, ad onta di ogni tentativo di dimostrazione, in primo luogo una certezza metafisica[26]. Che la forza viva dell'universo non possa mai aumentare, egli ritiene di poterlo derivare dall'impossibilità di un moto perpetuo. Che, d'altra parte essa non sia suscettibile di alcuna diminuzione, è in grado di dimostrarlo solo attraverso un'indiretta pseudo dimostrazione, la quale in sostanza rappresenta solamente una petitio principii. Se infatti vi fosse - conclude Leibniz - la possibilità che la forza diminuisca, allora essa, non essendo in grado di aumentare ma comunque di diminuire, dovrebbe diventare sempre più debole, il che senza dubbio contraddice all'"ordine delle cose" [27].

All'importanza generale del principio dell'energia ha fatto riferimento con molto vigore anche Christian Wolff nella sua Cosmologia Generale (1731). Egli giustifica l'ipotesi della conservazione della forza col fatto che in un singolo corpo la forza viva può sorgere o decadere solo attraverso un urto, ma che tanto nell'urto elastico quanto in quello anelastico la quantità totale di forza viva rimane invariata[28]. Wolff è pure convinto che il limite di validità del principio si estenda molto oltre l'ambito della meccanica e, addirittura, della fisica; anche nella psicologia ed in altri rami della filosofia la tesi della conservazione della forza viva condurrebbe alla conoscenza di altissime verità, cosicché non sarebbe davvero impresa inutile occuparsi della chiara comprensione della tesi [29].

Anche alla marchesa du Châtelet la conservazione di tutta la forza viva presente nell'universo appare come un dato di fatto così solido, così evidente, che da un eventuale contrasto tra il principio e le singole osservazioni ne potrebbe conseguire al massimo l'imprecisione delle nostre osservazioni ma mai l'inesattezza del principio. Che la forza non si annulli, è del tutto certo. In effetti essa potrebbe bensì sembrare perduta (come per l'urto anelastico), però anche allora la si ritroverebbe di continuo negli effetti da essa provocati, sempreché questi effetti siano evidenziabili[30].

La convinzione dell'assoluta indistruttibilità della forza si affermò in quel periodo della fisica con una tale determinatezza ed un tal vigore che in modo del tutto naturale condusse ad idee che oggi rappresentano il fondamento dei più recenti sistemi di filosofia della natura. Alla concezione sostanziale della forza, fondata da Ostwald, alla moderna rappresentazione di una migrazione dell'energia riportano sotto molti aspetti i punti di vista che Johann Bernoulli sviluppò nel 1735 in un trattato sull'essenza della forza. La forza viva, che più convenientemente si dovrebbe chiamare facoltà d'azione, sarebbe qualcosa di reale e sostanziale, di per sè esistente e che nella sua quantità non dipende da niente altro. Da ciò si potrebbe concludere che ogni qualsiasi forza viva abbia la sua quantità stabilita, della quale nulla può svanire senza essere ritrovata nell'effetto provocato. La continua conservazione della forza viva si evidenzierebbe, con ciò, del tutto spontaneamente, sicché dunque la forza, che prima di un processo aveva la sua sede in uno o più corpi, necessariamente dopo il processo, nella misura in cui essa non sia rimasta nei corpi di prima, dovrebbe ritrovarsi in uno o più altri corpi. Questo sarebbe il senso vero della tesi della conservazione delle forze vive[31].

Frattanto, dalla metà del XVIII secolo in poi, l'interesse al principio di conservazione della forza viene di nuovo attenuandosi. La sua importanza metafisica viene sempre più perdendosi, e si cerca di limitare la sua validità entro ambiti sempre più ristretti. L'esattezza formale del principio, la sua applicabilità in certi studi dinamici, non erano bensì messi in dubbio da nessuno, ma proprio presso i più spiccati sostenitori della meccanica veniva mostrandosi, a quel tempo, una decisa avversione contro una troppo estesa generalizzazione del principio. Così, Maupertuis opinava, nel suo Progetto di una cosmologia, che tanto la legge di Cartesio che quella di Leibniz non potessero valere come principio universale. Nemmeno potevano essere considerate come un risultato generale delle leggi del moto, giacché una conservazione della quantità di moto avrebbe luogo solo in determinati casi e la conservazione della forza viva solo in ben determinati corpi (precisamente solo in quelli perfettamente elastici)[32]. Anche d'Alembert aveva presente la tesi della conservazione della forza viva allorché, nel suo Manuale di dinamica (1743) mise in guardia dall'introdurre punti di vista metafisici nella fisica e presentare come principi universali delle leggi che sarebbero esatte solo in determinati casi; non sarebbe lecito considerare come originaria legge di natura qualcosa che sarebbe un puro risultato matematico di alcune formule[33]. Kant, che al problema dell'esatta misura delle forze ha dedicato un circostanziato lavoro giovanile, di poco valore, invero, dal punto di vista fisico (Pensieri sulla valutazione delle forze vive nella natura, 1747), non ha affatto menzionato, nei suoi scritti filosofici successivi, il principio di conservazione della forza, ed anche i grandi pensatori dell'epoca successiva non trovarono la legge degna di alcuna considerazione.

Soltanto allorché nei primi decenni del XIX secolo cominciò a svilupparsi sempre più poderosamente l'immagine dell'unità ed immutabilità delle forze della natura ed anche l'idea della conservazione della forza trasse da ciò nuovo alimento, tornarono in vigore le idee metafisiche un tempo così influenti ma nel frattempo del tutto dimenticate. La maggior parte dei ricercatori, ai quali si suole attribuire la scoperta del moderno principio dell'energia, sono stati guidati alle loro ipotesi attraverso considerazioni metafisiche. Il punto di partenza delle osservazioni di Roberto Mayer è costituito da quegli assiomi di filosofia della natura che egli cita, con predilezione, nella forma latina tramandata dai tempi antichi[34]. Pure Joule, che proprio dal lato sperimentale aveva posto la base della nuova energetica, scorgeva il sostegno appropriato alle sue idee non tanto nei suoi esperimenti quanto in alcuni concetti metafisici profondamente radicati, la cui verifica sperimentale gli balenava dinnanzi come la meta dei suoi lavori. Che con una spesa di forza meccanica si ricavi esattamente un uguale equivalente in calore, derivava soprattutto dal convincimento che "dovessero pure essere imperiture le forze della natura sorte dal fiato del Creatore."[35] In quanto solo il Creatore possiede, come Joule illustrò in un successivo lavoro, la potenza per distruggere, e perciò una teoria la quale nel suo sviluppo dovesse condurre all'ipotesi di un annientamento della forza dovrebbe, come già avevano riconosciuto Roget e Faraday[36], essere necessariamente rigettata come falsa [37].

Nel modo più evidente, comunque, si mostra l'influsso delle idee metafisiche nel fisico danese Colding, il quale viene indicato da molti come il vero scopritore del principio dell'energia. I suoi ragionamenti concordano, sotto molti aspetti, con le conclusioni attraverso le quali un tempo Cartesio cercò di dimostrare la conservazione della quantità di moto. Colding infatti, nei suoi lavori, partiva dal seguente concetto fondamentale (come egli stesso riferisce in una successiva lettera in difesa dei suoi diritti di priorità): le forze sarebbero esseri spirituali, immateriali, dal momento che noi siamo edotti della loro esistenza solo attraverso il loro dominio sulla natura. Questi esseri dovrebbero di conseguenza stare molto al di sopra di tutto ciò che possiede un'esistenza materiale. Ora, dal momento che è chiaro che la saggezza che noi con tanta ammirazione riconosciamo nella natura potrebbe manifestarsi solo nelle forze, così anche queste potenze dovrebbero essere in relazione con quella stessa potenza spirituale, immateriale ed intellettuale, che guida l'intero processo del mondo. Ma stando così le cose, sarebbe del tutto impossibile l'ipotesi che queste forze costituiscano qualcosa di mortale o caduco. Esse dovrebbero quindi con tutta certezza essere considerate come del tutto imperiture[38].