vii. la trasformazione equivalente delle forze della natura

Dall'unione dell'idea della costanza con quella dell'unitarietà, e coll'intermediazione dell'idea della compensazione, venne sviluppandosi quel concetto la cui formulazione costituì lo stimolo effettivo per la fondazione dell'energetica moderna. Si tratta dell'ipotesi che le diverse forme dell'energia unitaria siano fra loro equivalenti, e perciò trasformabili l'una nell'altra in rapporti costanti. La configurazione dell'idea della trasformazione rese possibile un'estensione del principio di conservazione della forza oltre l'ambito della meccanica, entro il quale esso era, in origine, limitato. Il principio della costanza dell'energia meccanica si estende così alla nozione che la quantità di forze di una certa specie può bensì essere aumentata o diminuita, senza che, per questo, la somma di tutte le forme di forza quantitativamente variabili possa subire anch'essa alcuna variazione.

Il primo impulso alla formulazione di questo concetto venne fornito dall'apparente contraddizione intercorrente tra l'affermata invariabilità della forza viva e la realtà dell'urto anelastico. Che il principio di conservazione della forza viva, nella sua forma originaria, fosse valido solo per corpi perfettamente elastici, e che di simili non ce ne siano affatto in natura, lo dovettero ammettere anche i più convinti assertori di questa tesi. Essi potevano affermare la validità generale del loro principio solo se, contemporaneamente, assumevano che l'inevitabile perdita di forza nell'urto anelastico fosse solo apparente, e pertanto, in effetti non si trattasse di un annientamento bensì soltanto di una trasformazione in un'altra forma.

Il primo a sviluppare in dettaglio questa idea fu Leibniz. Egli ipotizzava una specie di energia interna dei corpi e la spiegava come un movimento, invisibile dall'esterno, effettuato dalle particelle più piccole dei corpi. Se, dunque, come faceva Leibniz, si scorgono nel movimento interno e nella forza meccanica solo forme diverse dell'energia, allora si può ritenere la sua quantità come invariabile per qualsiasi urto ad arbitrio. Infatti all'atto dell'urto, come ammette Leibniz, una parte della forza viene assorbita dalle particelle che compongono la massa del corpo, senza che questa forza venga restituita alla massa totale; ciò dovrebbe avvenire, come riconosce giustamente Leibniz, solo allorché i corpi compressi fra loro non riprendessero completamente il loro aspetto primitivo[1]. Ma ciò che verrebbe assorbito dalle particelle, quantunque debba essere sottratto dalla somma delle forze vive dei corpi in urto, non sarebbe in alcun modo perduto del tutto per l'universo[2]. Infatti, secondo la visuale di Leibniz, in questi casi, di fronte ad un'apparente disuguaglianza tra causa ed effetto, non si può ammettere una distruzione, bensì solo un trasferimento di energia[3]. Il trasferimento del moto di masse al moto molecolare viene da Leibniz, in modo appropriato, paragonato al cambio di una grossa banconota in moneta spicciola[4].

L'ipotesi che l'energia nascosta, dopo l'urto, nell'interno dei corpi, sia di tipo cinetico, non era, manifestamente, l'unica possibile. Parecchi fisici tentarono anche di porre in accordo la realtà dell'urto anelastico con il principio di conservazione della forza, attribuendo ai corpi, dopo l'urto, una energia potenziale interna, che verrebbe prodotta dalla compressione fra loro delle particelle più piccole. Così Johann Bernoulli paragona la compressione delle molecole fra loro con la compressione di un corpo elastico, il quale sia poi impedito, da un qualsivoglia ostacolo, a riestendersi fino al volume primitivo, e, in tal modo, non possa restituire verso l'esterno la forza viva ricevuta all'atto della compressione, bensì la debba conservare dentro di sè. In modo analogo, anche per l'urto anelastico viene utilizzata forza viva per la compressione dei corpi, e nonostante l'apparente distruzione, nulla delle forze andrebbe in realtà perduto [5].

Una conversione completa dell'energia interna in massa in movimento avrebbe quindi luogo, secondo questa teoria, solamente per urti perfettamente elastici. Per s'Gravesande la conservazione della forza viva nell'urto elastico appare in effetti giustificata dal fatto che l'energia cinetica scomparsa all'istante dell'urto sia stata utilizzata per la compressione delle parti elastiche. Ma dal momento che queste parti, proprio in conseguenza dell'elasticità perfetta, recupererebbero con uguale forza il loro aspetto primitivo, allora la forza scomparsa dovrebbe riapparire completamente, e quindi la somma delle forze vive dopo l'urto avere lo stesso valore di prima[6]. Ora, dall'analogia conl'urto elastico, Christian Wolff conclude che anche per l'urto anelastico la quantità di energia rimane invariata. Infatti se la forza che viene utilizzata per la compressione fra loro delle parti più piccole, può essere riutilizzata per i corpi elastici, non per questo essa, nel caso di corpi anelastici, dovrebbe essere considerata del tutto perduta, solo per il fatto che essa non riappare immediatamente[7].

Daniel Bernoulli si è espresso solo molto in generale circa i comportamenti nel caso dell'urto anelastico. La parte di forza viva, o di energia potenziale, che sia stata usata per la compressione dei corpi fra loro, potrebbe, secondo la sua opinione, non essere restituita ai corpi, bensì si trasferirebbe in una certa materia fine entro la quale rimane conservata[8]. Che Bernoulli non abbia sviluppato ulteriormente questa idea, è tanto più da rimpiangere in quanto egli aveva già riconosciuto chiaramente l'identità tra moto molecolare e calore[9]. Se egli avesse sfruttato completamente le idee di Leibniz, si sarebbe avvicinato moltissimo alla scoperta di Robert Mayer. D'altronde, l'idea della trasformazione appare, presso Bernoulli, ad un livello di sviluppo già molto progredito. Il rapporto tra l'energia elastica e quella meccanica è per lui del tutto chiaro, persino il complicato processo di funzionamento della macchina a vapore è da lui considerato, nella sua Hydrodynamica (1738), come una trasformazione di una quantità di energia. Egli sa che per questo processo l'energia contenuta nel carbone, e che si libera durante la combustione, può convertirsi in energia elastica e, da questa, anche in cinetica; egli è addirittura convinto che con uno sfruttamento finalizzato della forza nascosta in un piede cubico di carbone potrebbe essere raggiunto un rendimento maggiore del lavoro giornaliero di otto o dieci persone[10].

Dopo la comparsa dell'Hydrodynamica di Bernoulli si instaura una lunga pausa nello sviluppo dell'idea della trasformazione. Solo negli ultimi anni del XVIII secolo, due eminenti fisici hanno ripreso l'idea, conferendole con successo una nuova configurazione. Si tratta di Humphry Davy e di Benjamin Thompson Conte di Rumford. Davy ha impostato molti esperimenti, con i quali gli riuscì di scoprire strette relazioni fra le diverse forze della natura. Egli è uno dei più eminenti propugnatori della teoria meccanica del calore, è l'effettivo fondatore dell'elettrochimica ed anche lo scopritore della luce ad arco elettrico. Fin dalla sua giovinezza, Davy sostenne il punto di vista di una continua conversione delle forze, come emerge dal manoscritto di un suo primitivo lavoro Sul calore, la luce e le combinazioni della luce (1799). L'idea più sublime - nell'opinione di Davy - che noi potremmo formarci sui moti della materia, è l'ipotesi che i diversi modi di movimento si trasformino costantemente l'uno nell'altro. La gravitazione, il moto meccanico e quello repulsivo[11] sembrano prodursi reciprocamente l'un l'altro, ed in questa incessante trasformazione risiede presumibilmente la causa di tutti i fenomeni che possano ricondursi a trasformazioni della materia[12].

All'incirca alla medesima epoca risalgono gli eccellenti lavori di Rumford. I suoi esperimenti, effettuati con grande precisione, riguardavano soprattutto la produzione di calore mediante lavoro meccanico; ma successivamente ebbero altresì per oggetto la propagazione del calore per irraggiamento. Se ora questi esperimenti furono, in primo luogo, benefici per la configurazione della teoria meccanica del calore[13], così pure divennero di grande importanza per lo sviluppo dell'energetica. Infatti essi portarono Rumford alla convinzione che il calore prodotto dal movimento fosse equivalente alla forza meccanica scomparsa, e che quindi la somma dei due tipi di energia rimanesse, per trasformazioni di questo genere, continuamente invariata[14]. Gli esperimenti, inoltre, gli fecero riconoscere la stretta connessione tra calore e luce e lo condussero così all'ipotesi che i moti delle più piccole particelle ponderabili, e dell'etere, possano influenzarsi a vicenda. Infatti, se si crede all'esistenza di un etere universale, il quale come fluido straordinariamente elastico riempia, accanto alla materia ponderabile, tutto l'universo, si deve allora, come pensa Rumford, facilmente ammettere che i movimenti effettuati dalle particelle del corpo, (nei quali egli scorge la causa dei fenomeni termici) producano in questo fluido oscillazioni ondulatorie e che, viceversa, attraverso le oscillazioni del fluido, vengano notevolmente influenzati e modificati i moti delle particelle del corpo. Applicando l'idea della conservazione a tutte queste interazioni e trasformazioni, Rumford giunge alla conclusione che il totale della forza viva contenuta nell'universo, il quale, a suo parere, sarebbe misurabile attraverso il moto di masse, il moto molecolare, e le vibrazioni dell'etere, rappresenti una grandezza invariabile[15].

Questi punti di vista di Rumford ottennero una chiara configurazione ad opera di Augustin Fresnel (1822). Anch'egli è convinto che la somma delle forze, contenute nella materia ponderabile e nell'etere, debba rimanere costante per tutti gli eventi. Ma egli riconosce nella forza viva del moto dell'etere l'esatta misura della luce, principalmente per il motivo che la quantità di luce, per fenomeni puramente ottici, rimane invariata così come la quantità di forza viva per i processi puramente cinetici. Infatti, come nei fluidi elastici il totale della forza viva rimarrebbe continuamente costante, comunque in essi si diffonda e distribuisca un moto ondulatorio, così anche la quantità di luce, purché si trovi ad attraversare mezzi molto trasparenti, rimane con buona approssimazione la stessa. Ma se la quantità di luce deve essere inclusa nella totalità delle forze presenti nell'universo, ne consegue, come riconobbe esattamente Fresnel, che ad ogni perdita di luce debba corrispondere un aumento in ugual misura di forza viva di altro genere. Tali perdite di luce avrebbero luogo continuamente per la riflessione della luce da parte dei corpi neri, ma non sarebbero del tutto evitabili neanche per le più lucide superfici metalliche; i mezzi opachi, ma anche i grossi spessori di materiali trasparenti assorbirebbero ugualmente una quantità considerevole della luce incidente. Tuttavia, tutte queste perdite apparenti sarebbero in pieno accordo col principio di conservazione della forza viva dal momento che, come concludeva acutamente Fresnel, la quantità di forza viva che scompare in forma di luce, dovrebbe riapparire in forma di calore[16].

Le idee che Rumford aveva sviluppato intorno alla reciproca trasformazione tra energia meccanica e calore, ebbero un ulteriore perfezionamento ad opera di Sadi Carnot. Che l'unico scritto da lui pubblicato, le sue Riflessioni sulla potenza motrice del fuoco (1824), non abbiano esercitato un maggiore influsso sulla configurazione dell'energetica, è da spiegare solo col fatto che Carnot diede una formulazione troppo esatta del principio di conservazione della forza. Nell'oscura intuizione di un principio più generale, al quale tuttavia egli non era ancora in grado di conferire un chiaro aspetto, Carnot disse di più di quanto i suoi contemporanei fossero in grado di capire. L'idea, che in modo confuso gli aleggiava davanti, era quella dell'energia disponibile, la quale nondimeno solo più tardi doveva trovare il suo perfezionamento; ma proprio questa mescolanza di componenti del primo e del secondo principio fondamentale dovette pregiudicare in modo essenziale la chiarezza delle sue ricerche. Infatti, nella trattazione di Carnot appare come energia termica il prodotto tra la quantità della sostanza calore ed una differenza di temperatura. Nell'effettuazione di un lavoro dunque, secondo la visuale di Carnot, è solo la differenza di temperatura a restringersi, mentre la quantità di calore rimane invariata; questa assunzione è, naturalmente, nella più aspra contraddizione col principio dell'energia[17]. Ma, nondimeno, Carnot ha riconosciuto chiaramente la possibilità di una trasformazione reciproca tra forza meccanica e potenzialità termica. Ovunque sia presente una differenza di temperatura è possibile, secondo la sua opinione, creare forza meccanica, ed ovunque sia possibile utilizzare qualcosa di questa forza sarebbe altresì possibile realizzare una differenza di temperatura e produrre una perturbazione dell'equilibrio nella sostanza calore[18].

Negli appunti postumi, pubblicati solo nel 1878 dal fratello minore di Carnot, la nebulosità che affligge il trattato appare, invero, del tutto eliminata. Più tardi Carnot, come emerge da queste annotazioni fatte tra il 1824 ed il 1832, lasciò cadere l'ipotesi di una sostanza calore[19] e si associò completamente alla teoria meccanica del calore[20]. Il calore sarebbe, come egli più tardi fermamente credette, nient'altro che forza meccanica; esso sarebbe, invero in forma diversa, il movimento stesso, il quale dopo la sua trasformazione procederebbe da solo fra le più piccole parti del corpo. Ovunque abbia luogo una distruzione di forza motrice, essa sarebbe legata ad una contemporanea produzione di calore, e precisamente in una quantità esattamente proporzionale alla quantità di forza motrice distrutta[21]. Viceversa, ovunque vi sia scomparsa di calore viene prodotta forza meccanica[22]. Si potrebbe quindi considerare come una legge valida in generale, che la forza motrice, per quanto concerne la sua quantità nella natura, sia invariabile, cioè, propriamente, mai nasca e mai si distrugga[23].

Attraverso le indagini di Rumford, di Carnot e di Fresnel, l'idea della conservazione della forza ha conseguito un ampliamento straordinario. La trasformazione equivalente reciproca tra forza cinetica e forza termica appare ormai definitivamente accertata, e pure l'idea della conservazione, che per lungo tempo è stata limitata all'ambito della meccanica, viene estesa alla totalità di moto, calore e luce. Ma ancora mancava un ampio settore della fisica, che fino ad allora non era stato incluso nelle considerazioni energetiche. Era la dottrina dell'elettricità e del magnetismo, la quale, a quel tempo, in seguito alle non chiare ipotesi sull'essenza di queste forze della natura, occupava ancora una propria posizione particolare nella fisica; infatti non si era in grado di porre i fenomeni elettrici e magnetici in una giusta correlazione né con i fenomeni molecolari della materia ponderabile né con le modificazioni dell'etere. Ma anche le relazioni dell'elettrologia con l'energetica dovevano diventare sempre più chiare man mano che che si rendeva noto un numero sempre maggiore di eventi, nei quali l'energia magnetica o l'elettrica si trasforma in forza meccanica, termica o chimica, o, viceversa, essa viene generata da queste.

Nell'anno 1792, Volta scoprì la genesi di forza elettrica sotto l'influsso di effetti chimici, ed otto anni più tardi, Carlisle trovò un fenomeno inverso: la scomposizione dell'acqua mediante la corrente elettrica[24]. Nell'anno 1819, Oersted dimostrò l'azione dell'elettricità sul magnetismo; nel 1831 Faraday mostrò che attraverso eventi magnetici si possono creare delle correnti elettriche. Nell'anno 1810, dopo che erano già stati resi evidenti dapprima gli effetti termici e luminosi della scintilla elettrica, e più tardi l'incandescenza dei fili percorsi da corrente, Davy scoperse, la luce ad arco elettrico, e nel 1821, Seebeck, mediante il suo famoso esperimento, completato nel 1834 da Peltier, dimostrò la stretta connessione che esiste tra il calore ed il galvanismo. La ruota di Barlow (1823), il magnete rotante di Faraday, ma soprattutto le diverse macchine generatrici di corrente[25] rappresentano infine chiari esempi di una produzione di forza galvanica da forza meccanica, mentre, attraverso un'inversione del funzionamento delle macchine elettromagnetiche, si potè osservare una trasformazione delle correnti in energia meccanica[26].

A Faraday spetta il merito di avere, per primo, stabilito una certa connessione tra l'elettrologia e la teoria della trasformazione della forza. Le relazioni che intercorrono tra l'elettricità e le altre forze della natura, rappresentano il terreno sul quale egli portò ad un più netto e chiaro perfezionamento la sua idea prediletta di una grande forza unitaria[27]. La forma unica di questa forza potrebbe, a suo avviso, venire variata attraverso parecchi processi in modo tale da dar luogo ad un'evidente trasformazione dell'una forma in un'altra. Così si potrebbe trasformare forza chimica in corrente elettrica o, viceversa, questa a sua volta in forza chimica[28]. La corrente elettrica sarebbe solo un'altra forma di affinità chimica e perciò anche continuamente proporzionale all'affinità che l'ha prodotta; essa potrebbe essere aumentata di una certa quantità, coll'apporto di una forza chimica equivalente a questa quantità. Da tutto ciò risulta chiaramente, conclude Faraday, che l'affinità chimica e l'elettricità siano una e medesima cosa[29]. Allo stesso modo come negli elementi galvanici la forza elettrica deriva dall'affinità chimica, così anche nella torpedine insorge l'elettricità dal fatto che durante la sua produzione viene consumata energia nervosa; ma la produzione di elettricità sarebbe evidentemente equivalente e proporzionale alla quantità di forza nervosa che viene consumata durante la trasformazione[30].

Ai punti di vista di Faraday riconduce anche un'espressione caratteristica di Justus von Liebig, il quale nelle sue Lettere chimiche (1844) definì il calore, l'elettricità ed il magnetismo fra loro equivalenti in una relazione analoga a quella tra carbonio, zinco ed ossigeno. Essi si produrrebbero di continuo a vicenda nei medesimi rapporti e, allo stesso modo come [sono equivalenti] fra di loro, sarebbero equivalenti anche all'affinità chimica, la quale, usata in una forma, farebbe apparire il calore, consumata in un'altra forma farebbe apparire elettricità o magnetismo[31,32].

Il grande ruolo che l'energia proveniente dal sole gioca nel continuo mutare e circolare delle forze è stato messo in evidenza, per primo, da Herschel nella sua Astronomia apparsa nel 1833. I raggi del sole sono, come insegna Herschel, l'estrema sorgente di tutti i movimenti cha hanno luogo sulla superficie terrestre. Mediante il calore dei raggi verrebbero prodotti i venti e le perturbazioni dell'equilibrio elettrico nell'atmosfera, alle quali sarebbero dovuti i fenomeni ottici e forse anche la genesi del magnetismo terrestre e dell'aurora boreale. Le radiazioni, infine, renderebbero le piante in grado di assimilare materia inorganica e rappresenterebbero in tal modo la sorgente delle grandi riserve di forza che appaiono immagazzinate, per l'uso dell'uomo, nei giacimenti di carbone fossile[33],[34].

Alle visuali di Herschel, ma specialmente a quelle di Faraday, si riallacciò un loro conterraneo, Sir William Grove, il quale per primo cercò di dare una rappresentazione complessiva della fisica dal punto di vista dell'unitarietà delle forze. Egli poneva già alla base delle lezioni, da lui tenute nell'anno 1842[35], la considerazione che i diversi stati di attività della materia, che costituivano l'oggetto della fisica sperimentale, come calore, luce, magnetismo, afflnità chimica e moto, fossero concatenate fra loro in un legame di interdipendenza. Nessuno di questi stati potrebbe in sè essere indicato come la causa essenziale degli altri. Ciascuno potrebbe piuttosto produrre ognuno degli altri, o essere trasformato in questi. Così il calore potrebbe, in modo indiretto o diretto, produrre elettricità, e l'elettricità, a sua volta, calore. Altrettanto sarebbe anche per le altre forze; ciascuna di esse scomparirebbe all'insorgere di una forza da essa prodotta. Attraverso tutte le osservazioni ci si vedrebbe spinti ad ammettere che una forza possa generarsi soltanto quando una, o parecchie altre, che ad essa preesistevano, smettano di esistere[36].

Faraday, Herschel e Grove sono stati condotti alle loro opinioni sulla trasformazione della forza, principalmente attraverso gli sforzi per l'unitarietà nella fisica.

Di conseguenza essi non riuscirono a portare ad alcuna conclusione completa nemmeno la teoria della trasformazione che, in conseguenza della sua connessione con l'idea della costanza e con l'idea unitaria, necessitava ancora, in primo luogo, di un'estensione secondo due direzioni. Le visuali di questi fisici dovettero trovare la loro integrazione negli sforzi di ricercatori i quali, come propugnatori della teoria meccanica del calore, cercavano di risolvere il suo più importante problema, ossia dimostrare la costanza del rapporto di trasformazione tra calore e lavoro meccanico[37]. I fisici che si erano imposti questo compito, hanno invero nella loro maggioranza, parimenti concepito l'idea della trasformazione in una maniera alquanto unilaterale, e conferito quasi sempre il maggior vigore all'idea della costanza. Séguin e Holtzmann nelle loro ricerche lasciarono fuori considerazione le idee unitarie e si accontentarono dell'ipotesi che calore e movimento fossero fenomeni identici. Anche per Colding l'idea della costanza sta in vetta a tutte le speculazioni; l'idea dell'eternità delle forze della natura[38] lo condusse alla convinzione che in tutti i casi nei quali una forza esegua lavoro meccanico, chimico, o di qualsivoglia altro genere, essa in effetti si trasformi semplicemente e ricompaia in una nuova forma, senza che alcunché della quantità originaria sia variato [39]. Anche il punto di vista sostenuto da Joule in queste questioni di filosofia della natura concorda essenzialmente con quello di Colding; anch'egli infatti, partendo dalla convinzione che le forze della Natura siano, ad opera del fiat del Creatore, indistruttibili, giunge alla conclusione che in tutti i casi nei quali venga spesa forza meccanica si debba ricavare una quantità di calore esattamente equivalente[40].

I primi fisici che misero chiaramente in evidenza il doppio significato dell'idea della trasformazione, e con ciò diedero una conclusione comune allo sviluppo delle due idee fondamentali per l'energetica, furono, in ogni caso, Karl Friedrich Mohr e Julius Robert Mayer. Mohr, già in un trattato apparso nel 1837, Sulla natura del calore [41] partiva dall'idea di una forza completamente unitaria la quale, accanto agli elementi chimici, rappresentasse l'unico agente nella natura e che, analogamente alla materia ponderabile, fosse frazionabile e componibile ad arbitrio, ma rimanesse immutabile nella quantità originaria[42]. Sotto condizioni opportune, la forza potrebbe apparire come moto, affinità chimica, coesione, elettricità, luce, calore e magnetismo. Tutti questi stati non sarebbero altro che diversi modi di apparire; da ciascuno di essi potrebbero prodursi tutte le altre forme di forza[43]. Mohr spiega la sua teoria mediante numerosi esempi e riporta pure nel suo trattato una rassegna abbondante, invero non priva di errori[44], nella quale appaiono raccolte tutte le reciproche trasformazioni delle forze della natura osservate fino ai suoi tempi.

Robert Mayer nel suo primo trattato (Osservazioni sulle forze della natura inanimata)45 apparso nel 1842, il quale deve la sua celebrità alla determinazione esatta dell'equivalente termico, ha quasi esclusivamente trattato la trasformazione reciproca di energia cinetica in energia termica; egli affermava anche in modo solo generico che le forze fossero "oggetti non solo quantitativamente indistruttibili ma anche qualitativamente trasformabili"[46]. Una descrizione esauriente di questa idea è comunque riportata nel secondo trattato di Mayer, apparso nel 1845, nel quale viene veramente posta la base dell'energetica moderna; esso porta il titolo Il moto organico nella sua relazione col metabolismo [47,48].

L'idea di una continua trasformabilità della forza, tuttavia unitaria nella sua essenza, rappresenta l'idea dominante in questo scritto. "E' a priori dimostrabile - così Roberto Mayer condensa il suo punto di vista- ed ovunque confermabile dall'esperienza, che le diverse forze si possono trasformare l'una nell'altra. In verità, esiste solo un'unica forza. In un eterno scambio essa circola sia nella natura morta che in quella vivente.

Nell'uno e nell'altro caso, nessun evento avviene senza variazione di folma della forza"[49].

Mayer distingue in tutto cinque forme principali di forza: la forza di caduta (che corrisponde all'energia potenziale); il moto (compreso il moto vibratorio, nel quale Mayer annovera anche la luce); il calore. l'elettricità col magnetismo e la differenza chimica della materia la quale, sia come separazione chimica oppure anche come legame chimico, rappresenta una forza[50]. Mayer intanto premette che ciascuna delle forze si possa trasformare in un'altra forma ad arbitrio, come pure in una seconda forza dello stesso tipo, e perviene così all'assunto di 25 metamorfosi nelle quali si compirebbe la trasformazione delle cinque forme principali[51]. Fra i molti esempi di trasformazioni di forze, che Mayer riporta e spiega nel suo trattato, sono da mettere particolarmente in rilievo la trasformazione di un effetto meccanico mediante l'elettroforo[52] e la trasformazione di energia ottica in forza chimica, operata dalle piante[53]; secondo la convinzione di Mayer anche nei processi vitali avviene, sia per la materia come pure per la forza, solo una trasformazione ma mai una creazione dell'una o dell'altra[54]. Ma tutte queste trasformazioni avvengono, come ripetutamente Mayer pone in rilievo col massimo vigore, in rapporti esattamente equivalenti, cosicché quindi secondo Robert Mayer, si può riunire il risultato delle sue indagini nelle parole divenute famose:

"Per tutti gli eventi fisici e chimici, la forza data rimane una grandezza costante"[55].