viii. l'elaborazione matematica delle idee energetiche

La stretta interdipendenza che in tutti i tempi legò la meccanica, dalla quale cominciarono ad evolversi le teorie energetiche, alla matematica, ebbe come conseguenza che fin dagli inizi della fisica moderna il perfezionamento delle idee di filosofia della natura, riunite nella legge della conservazione della forza, fu accompagnato da uno sviluppo parallelo delle idee teoreticomeccaniche, la cui configurazione in estensione e compendio costituì il primo fondamento matematico per la nuova energetica.

Gli inizi di questa evoluzione risalgono fino a Galilei. Egli è il creatore di due principi i quali già racchiudono in sè i germi di due importanti teoremi dell'energetica moderna e che egli enunciò per primo nei suoi Discorsi (1638). Le osservazioni sulla caduta lungo il piano inclinato condussero Galilei all'importante nozione che per cadute da uguale altezza la velocità finale del corpo in caduta sarebbe indipendente dalla lunghezza della traiettoria descritta e quindi anche dall'inclinazione del piano[1]. Le considerazioni sul piano inclinato convinsero anche Galilei dell'ideale reversibilità di ogni processo meccanico; per evidenziarla egli partì dal semplice esempio del moto del pendolo.

Se B è il punto più basso della traiettoria del pendolo possiamo concludere con certezza, secondo Galilei, che la velocità raggiunta nel punto B da una sfera che cada lungo l'arco CB, sarebbe sufficiente a provocare un movimento in su, lungo un arco BD di uguale lunghezza, fino ad un'uguale altezza[2]. L'analogo deve naturalmente valere per l'energia, per la forza, che Galilei denomina momento. Quindi, il momento prodotto dalla caduta lungo l'arco BD dovrebbe essere uguale al momento che muove lo stesso corpo in su da B a D, sicché dunque, in generale, ogni momento prodotto dalla caduta sarebbe uguale al momento che è in grado di risollevare il corpo lungo il medesimo arco[3].

Ponendo ora in relazione queste considerazioni con il principio discusso prima, Galilei riuscì a generalizzarle anche per un moto che si svolga su un sistema di quanti si vogliano piani, diversamente inclinati. Se si eliminassero gli ostacoli che in un moto del genere si oppongono all'esperimento, apparirebbe ben chiaro, come intende Galilei, che la forza, la quale racchiude in sè l'effetto della caduta, sarebbe altresì in grado di riportare i corpi all'altezza da cui sono caduti[4].

Una versione più rigorosa del principio galileiano venne tuttavia ottenuta solo ad opera di Christian Huygens, il quale, nel suo Horologium oscillatorium (1673), la utilizzò per la risoluzione del problema del centro d'oscillazione[5]. Infatti, secondo Huygens, la velocità raggiunta da un corpo nel suo moto verso il basso sotto l'influenza della gravità dovrebbe essere sempre tale che il corpo, che con essa inizi un movimento verso l'alto, si riporti all'altezza originaria[6]. Il principio, generalizzato ad un sistema di quanti corpi si voglia, afferma, secondo Huygens, che il baricentro di un sistema non possa mai salire oltre il livello nel quale esso si trovava all'inizio del moto[7]. Huygens, invero, non aveva alcun dubbio sul carattere assiomatico della sua tesi, tuttavia cercò di ricondurla ad un principio ancora più evidente, ed a tale scopo scelse la forma più semplice del principio dell'impossibilità di un perpetuum mobile. La sua ipotesi infatti non afferma altro, come egli espressamente pone in rilievo, che un corpo pesante non può da solo muoversi verso l'alto[8]. Con ciò, tuttavia, è dimostrata solo una faccia della medaglia; infatti Huygens non è stato in grado di indicare una ragione per cui il corpo non possa rimanere al di sotto dell'altezza originaria[9].

Il principio di Huygens fu di grande importanza per l'ulteriore sviluppo della meccanica matematica soprattutto per il fatto che, come Huygens fece esplicitamente rilevare, il suo principio sarebbe del tutto indipendente dal tipo di legame esistente fra le singole masse. Le relazioni statiche, come Huygens riconobbe per primo, divengono sì evidenti nei valori energetici delle singole masse, ma, per l'energia totale del sistema, sono del tutto equivalenti in quanto questa deve in ogni istante avere continuamente lo stesso valore come nel caso in cui le singole masse si muovano liberamente. L'energia, corrispondente ad un determinato stato di velocità, viene ora misurata da Huygens attraverso l'altezza che un corpo, con la sua velocità, potrebbe raggiungere. Quindi, nel caso di un pendolo fisico, se in un istante arbitrario del moto questi vincoli rigidi fra le singole masse fossero improvvisamente sciolti, allora secondo Huygens le masse d'ora in poi libere dovrebbero, in un'inversione del moto, colle loro velocità muoversi fino ad un'altezza tale che il baricentro del sistema libero, al termine del moto verso l'alto, si ritrovi al medesimo livello nel quale esso si trovava all'inizio del moto[10]; esso quindi sarebbe salito alla medesima altezza come se anche nel movimento verso l'alto fossero ancora esistiti i vincoli rigidi.

Ma accanto a queste considerazioni, che risultavano dal problema del centro d'oscillazione, furono della massima importanza per i fondamenti matematici dell'energetica anche le ricerche di Huygens sulle leggi dell'urto. In un trattato apparso nel 1669 Huygens affermava per primo il principio che la somma dei prodotti determinati dalle masse dei corpi rigidi per il quadrato delle loro velocità debba avere continuamente lo stesso valore, sia prima che dopo l'urto[11]. Ma Huygens ha già riconosciuto con chiarezza la stretta connessione che intercorre tra questa legge dell'urto ed il principio utilizzato per la determinazione del centro d'oscillazione. In una delle sue lettere egli esprimeva l'opinione che la conservazione della "forza di salita", affermata in questo principio, debba trovare la sua espressione nella costanza della somma dei quadrati delle velocità, ma che questa costanza non riguarda solo il pendolo fisico o l'urto dei corpi rigidi, bensì si evidenzia anche in molte altre indagini della meccanica[12].

Una precisa denominazione per il prodotto della massa con il quadrato della velocità, non è ancora da Huygens utilizzata; il concetto di forza viva, ugualmente importante per lo sviluppo delle idee sia meccaniche che energetiche, è stato coniato per primo da Leibniz. Nell'anno 1686 apparve il suo famoso trattato intitolato Breve dimostrazione di un notevole errore di Cartesio [13], nel quale egli cercava di dimostrare che per ottenere una misura esatta della "forza", la massa del corpo in movimento doveva essere moltiplicata non per la sua velocità, come faceva Cartesio, bensì per il suo quadrato[14]; sarebbe questa la grandezza, e non la quantità di moto, che, nonostante tutte le variazioni nei casi specifici, si conserva continuamente nella sua totalità. In un secondo trattato, lo Specimen dynamicum, apparso nel 1695 [15], Leibniz introdusse per il prodotto della massa col quadrato della velocità la denominazione di "forza viva"[16], sotto il qual nome quindi, fino alla metà del XIX secolo, veniva inteso il doppio della grandezza oggi conosciuta.

Nella tesi della conservazione della forza viva Leibniz, invero, ha scorto più una legge filosofica che non una matematica, e così anche i fondamenti dimostrativi, con i quali egli cercava di sostenere la tesi, ed i corollari da essa derivati, hanno un preponderante carattere di filosofia della natura[17]. Leibniz ha, tuttavia, pienamente compreso anche la grande portata delle idee matematico-energetiche di Galilei e di Huygens, e riconosciuto nel principio universale dell'uguaglianza di causa ed effetto la tesi che racchiude in sè, come casi particolari, tutti questi teoremi. Così pure egli nella sua Dinamica cercò di derivare questi teoremi da due corollari che risultano direttamente dal principio dell'uguaglianza.

Secondo l'uno di questi teoremi la grandezza dell'energia di un effetto è indipendente dal fatto se l'effetto sia mediato oppure immediato[18]. Da questo teorema, mediante un semplice condizionamento particolare risulta pure, come Leibniz fa vedere, il teorema di Galilei che afferma l'indipendenza della velocità finale dall'inclinazione del piano inclinato. Infatti in questo caso, secondo Leibniz, la causa è costituita dall'innalzamento di un peso fino ad una determinata altezza al di sopra di un livello orizzontale, l'effetto totale corrisponde allo stato di velocità che il corpo in caduta possiede quando raggiunge di nuovo il livello di partenza. Ora, siccome la causa è sempre la stessa, così gli effetti complessivi, essendo uguali alla causa comune, dovrebbero allo stesso modo essere continuamente gli stessi, qualunque sia la traiettoria, verticale od inclinata, lungo la quale il corpo cade [19].

Nel teorema di Huygens, Leibniz ha riconosciuto un caso particolare di un altro corollario, secondo il quale un effetto simile alla causa dovrebbe pure esserle sempre congruente[20]. Infatti, nell'intendimento di Leibniz, si può considerare come caso particolare di causa l'altezza di un corpo pesante prima della caduta, cioè l'energia potenziale corrispondente alla sua posizione all'inizio del moto di caduta. Ad essa è analogo, secondo Leibniz, l'effetto prodotto, precisamente il successivo innalzamento; esso, di conseguenza, non potrebbe essere equivalente alla causa se anche l'altezza non fosse uguale a quella di prima. Quindi anche lo stato finale definitivo dovrebbe coincidere in tutto con quello originale[21].

Dell'ulteriore configurazione delle idee di Leibniz e di Huygens si sono resi meritevoli, nei primi decenni del XVIII secolo, particolarmente Jakob, Johann e Daniel Bernoulli. L'indipendenza contemporanea delle relazioni dinamiche da quelle statiche, espressa nel principio di Huygens, è stata esposta dettagliatamente in primo luogo da Jakob Bernoulli in un trattato sul centro di oscillazione[22]. Suo fratello Johann Bernoulli si è anzitutto associato a Leibniz e comunque, partendo dal punto di vista che "dimostrare un principio significa offuscarlo"[23], lo ha trattato, analogamente a Leibniz, più dal lato filosofico che non da quello matematico[24]. Daniel Bernoulli, figlio di Johann, applicò per primo il principio nell'Hydrodynamica, dopo che Huygens stesso già aveva indicato la possibilità di una siffatta estensione del suo principio[25]. Infatti le velocità delle singole particelle di fluido devono, secondo Daniel Bernoulli essere sempre tali che anche il baricentro del fluido, nel caso che le singole particelle con le loro velocità si muovano liberamente verso l'alto, raggiunga di nuovo il suo livello originario[26]. Tuttavia nelle discussioni intorno al principio di conservazione della forza Daniel Bernoulli, al contrario di suo padre, evitò di massima ogni considerazione filosofica. Egli riconosceva appieno la stretta connessione che lega la legge di Leibniz con il più anteriore principio di Huygens e questo, a sua volta, con l'asserto di Galilei sul piano inclinato[27]. Egli sottolinea ripetutamente che la tesi della conservazione delle forze vive non afferma niente di più del principio di Huygens, il quale tuttavia, a suo avviso, rispetto a quella tesi, possiede il vantaggio di una maggiore esattezza. Perciò Daniel Bernoulli, invece che di una conservazione delle forze vive, parla preferenzialmente sempre di una "uguaglianza tra l'attuale moto di discesa ed il potenziale moto di salita"[28].

Una forma più adeguata e precisa per ricerche di meccanica pura fu conferita al principio di Leibniz ad opera di Jean Lerond d'Alembert il quale, nel suo Traité de Dynamique (1743), cercò di fonderlo con l'idea di Huygens dell'equivalenza delle relazioni statiche. Per dei corpi che, in qualsiasi modo, agiscono reciprocamente fra loro, allora, insegna d'Alembert, la somma dei prodotti delle masse per i quadrati delle velocità rappresenta sempre una grandezza costante, sia che i corpi si trascinino l'un l'altro mediante fili o sbarre rigide oppure, a condizione che essi siano perfettamente elastici, si influenzino fra loro attraverso urti. Ma se sui corpi agissero delle forze, allora la somma dei prodotti delle masse per i quadrati delle velocità sarebbe in ogni istante uguale alla somma dei prodotti delle masse per i quadrati delle loro velocità iniziali, aumentata dei quadrati delle velocità che i corpi avrebbero raggiunto se i corpi, sotto l'azione delle medesime forze, si fossero mossi ciascuno liberamente sulla traiettoria da esso effettivamente descritta[29].

Analogamente a d'Alembert[30] anche Lagrange nella sua Meccanica analitica (1788) si schiera decisamente contro la formulazione assiomatica del principio di conservazione della forza. Nella conservazione delle forze vive, Lagrange non scorgeva altro che una proprietà (propriété ) che compete continuamente al moto di un sistema quando le equazioni di condizione fra le coordinate dei diversi corpi non contengono il tempo come variabile, e le forze attive partono da centri fissi oppure da corpi appartenenti al sistema[31].

Anche il teorema di Galilei, che enuncia per la caduta obliqua l'indipendenza della velocità dalla forma della traiettoria, venne, secondo certi orientamenti nel corso del XVIII secolo, riconfigurato. Eulero nella sua Meccanica (1736) aveva dapprima indicato che, del tutto in generale, la variazione totale di velocità subita da un corpo in moto qualsiasi verso un centro d'attrazione fisso è completamente determinata dallo stato iniziale e finale del corpo, e quindi del tutto indipendente dalla forma e dalla lunghezza della traiettoria percorsa[32]. Daniel Bernoulli, nelle sue Osservazioni sul principio di conservazione delle forze vive inteso in senso generale (1748), dimostrò che, sopratutto in ogni sistema le cui masse si attraggano secondo la legge newtoniana, la variazione di forza viva, legata ad un qualsiasi movimento, dipende solo dallo stato iniziale e quello finale dei corpi[33] .

Queste idee ottennero una più nitida formulazione matematica ad opera di Lagrange. Egli, in un trattato apparso nel 1777, mostrò che le componenti della forza attrattiva agente fra due masse puntiformi si possono rappresentare come le derivate parziali di una e medesima funzione, la cui unica variabile è costituita in ogni istante dalla distanza fra i punti in attrazione reciproca[34]. Ma allora la variazione della forza viva, per un qualsiasi moto arbitrario, è completamente determinata dalla differenza dei valori che questa funzione assume all'inizio ed al termine del moto[35]. Laplace[36] ha successivamente studiato più da vicino le proprietà di questa funzione, la cui ulteriore indagine, ad opera di Green e Gauss, diede l'impulso alla fondazione della moderna teoria del potenziale[37].

Anche al di fuori della cinematica, il principio di Galilei generalizzato trovò ben presto applicazione. Daniel Bernoulli, per primo, lo trasferì all'energia elastica. Comunque avvenga il passaggio da uno stato di estensione o compressione ad un altro, la quantità di forza viva, riconosceva Bernoulli, che il corpo, in questo passaggio, può ricevere o trasmettere ad altri corpi, sarebbe dunque continuamente la stessa[38,39].

La configurazione matematica, cui le idee energetiche fondate da Leibniz e Huygens furono assoggettate nel corso del XVIII secolo, ha molto contribuito, invero, al chiarimento del principio della conservazione della forza, tuttavia essa lo ha privato quasi del tutto della sua importanza universale e dell'egemonia che esso deteneva nella fisica ancora ai tempi di Leibniz; l'influenza livellatrice del metodo matematico ebbe come conseguenza che alla soglia del XIX secolo il principio di conservazione della forza non rivestiva che un modesto ruolo in non più che una parte strettamente limitata della meccanica teorica. Un rivolgimento notevole sotto questo punto di vista si fece avanti solo quando le idee energetiche fecero il loro ingresso anche nel campo della meccanica tecnica, e nell'ambito di questa scienza trovarono con successo la loro ulteriore rappresentazione.

Il principio fondamentale introdotto da Leibniz, ed ancora più decisamente affermato da Johann Bernoulli[40], che la forza provocata in un corpo sia equivalente alla parte di causa che fu consumata per la sua creazione[41] servì già nella seconda metà del XVIII secolo alla soluzione di taluni problemi tecnici. Il primo ad applicare il principio di conservazione della forza fu, a quanto pare, Borda, in un trattato, apparso nel 1767, sulle ruote idrauliche[42], dopo che, comunque, già nell'anno 1702, Parent[43] aveva indicato l'applicabilità del concetto della forza viva alla scienza delle macchine. Coulomb utilizzò il principio in un trattato, pubblicato nel 1781, sui mulini a vento; egli fondava le sue indagini teoriche sul principio che l'effetto di una macchina libera da urti e da attrito sia continuamente proporzionale alla quantità di forza viva che sia stata ceduta dall'agente che ha provocato l'effetto[44].

Tuttavia le relazioni valide per la scienza delle macchine poterono conseguire un chiaro aspetto solo attraverso l'introduzione del concetto di lavoro; la sua formulazione fu anzittutto opera di tre eminenti ricercatori, ai quali è in primo luogo dovuto il grandioso balzo in avanti raggiunto in Francia dalla meccanica tecnica durante i primi decenni del XIX secolo. Essi furono: il Conte Lazare Carnot (padre di Sadi Carnot), Gustave Gaspard Coriolis e Jean Victor Poncelet. L'Essai sur les machines en général, di Carnot, apparve già nell'anno 1783 ed ottenne piú circostanziata elaborazione nel lavoro principale di Carnot: Principes fondamentaux de l'équilibre et du mouvement, apparso nel 1803. All'incirca un quarto di secolo più tardi apparvero quasi contemporaneamente due lavori fondamentali di Poncelet e Coriolis. Il primo pubblicò nell'anno 1827 le sue lezioni (Cours de mécanique appliquée)45 tenute a Metz presso la "Scuola d'applicazione d'artiglieria e del genio", il secondo pubblicò nell'anno 1829 il suo testo di Teoria delle macchine (Du calcul de l'effet des machines). Nel 1839 apparve la Mécanique industrielle di Poncelet, già nella quale molte idee introdotte da Coriolis vengono ulteriormente riformulate, e nel 1844 seguì una seconda edizione del lavoro di Coriolis, in cui precisamente le considerazioni sulla conservazione della forza viva e sulla trasmissione del lavoro trovarono una essenziale estensione. (Traité de la mécanique des corps solides et du calcul de l'effet des machines.) Accanto alle opere menzionate, anche lavori di Hachette[46], Navier[47], Dupin[48] ed altri hanno molto contribuito alla configurazione delle idee tecnico-energetiche.

Carnot ha introdotto nella fisica la quantità di lavoro sotto la denominazione di momento di attività[49]. Egli parla di un "momento di attività consumato dalle forze motrici" e definisce questa grandezza come il prodotto della forza in considerazione per la lunghezza della traiettoria che si ottiene quando si proietti la traiettoria descritta dal punto di applicazione della forza sulla direzione della forza stessa[50,51]. Le relazioni che intercorrono fra la quantità di lavoro e la variazione di forza viva risultavano per Carnot, come già emerge dalla denominazione da lui adottata per il lavoro, semplicemente dalla sua assunzione di una forza viva latente, la quale sarebbe misurata dal prodotto di una forza per una lunghezza (della traiettoria)[52], di conseguenza, come Carnot insegna, in ogni sistema di corpi i cui moti siano sottoposti solo a variazioni continue, l'incremento subito dalla somma delle forze vive durante un intervallo di tempo arbitrario, è sempre il doppio del momento d'attività consumato da tutte le forze motrici nel medesimo tempo[53],[54].

In un modo all'incirca uguale ha formulato questo principio anche Poncelet il quale, almeno nei suoi primi scritti, utilizzò per il lavoro la denominazione di "quantità d'azione"[55]. L'incremento subito dalla forza viva di un corpo è quindi, secondo la sua opinione, sempre il doppio della quantità d'azione che durante l'intervallo di tempo considerato viene comunicata al corpo dalle forze motrici. Poncelet assume un campo di validità del principio assai più esteso che non Carnot; egli pone espressamente in rilievo che il principio sarebbe valido anche per variazioni improvvise di velocità, purché ora vengano prese in considerazione pure le forze molecolari che si sono sviluppate durante l'interazione reciproca dei corpi[56].

Ad una semplificazione sostanziale del suo principio, Poncelet perviene attraverso il fatto che egli scorge nell'inerzia dei corpi una forza reale, la quale potrebbe essere misurata in unità di peso e che sarebbe proporzionale alla massa del corpo ed alla variazione della sua velocità[57]. Poncelet, quindi, scinde il differenziale negativo della forza viva, -mvdv, in due fattori, il prodotto --mdv/dt e la grandezza vdt. Il primo fattore lo chiama la forza d'inerzia, mentre il secondo misura il tratto percorso nell'elemento di tempo dt [58]. Il prodotto dei due fattori deve, di conseguenza, rappresentare ancora un lavoro, per il quale Poncelet, essendo la forza d'inerzia in opposizione alle forze motrici, adotta il segno negativo. Il principio di trasmissione del lavoro dunque può, secondo Poncelet, anche esprimersi nella forma che la somma algebrica dei lavori elementari, prodotti dalle forze motrici e dalle forze d'inerzia generate dalle variazioni, sarebbe costantemente uguale a zero [59]

Coriolis, per il prodotto della forza colla proiezione dello spostamento ha già del tutto adottato la denominazione "lavoro"[60] ed apportato, con ciò, una maggiore semplicità nelle leggi meccaniche, anche per il fatto che egli intendeva come forza viva non il prodotto della massa per il quadrato della velocità, come gli altri fisici del suo tempo, bensì soltanto la metà di questo valore, la quale sarebbe uguale al prodotto del peso per l'altezza corrispondente alla velocità[61]. Coriolis enuncia il principio della trasmissione del lavoro in forma analoga a Poncelet ed, a suo tempo, a Carnot. Le sue formule appaiono un po' più complicate solo per il fatto che egli suddivide in due gruppi le forze del sistema considerato, precisamente in: forze motrici, le cui componenti tangenziali cadono nella direzione della velocità istantanea, e forze resistenti, le cui componenti tangenziali agiscono nella direzione opposta[62]. Se con P si indicano le forze del primo gruppo, con P' quelle del secondo, con p/g la massa del punto materiale, con w la sua velocità attuale e con [[omega]]0 quella iniziale, allora, per il moto di un singolo punto materiale è, secondo Coriolis, sempre soddisfatta l'equazione:

Ora, per Coriolis questa equazione non esprime altro che, per un intervallo di tempo arbitrario, la differenza fra il lavoro delle forze motrici e quello delle forze resistenti sarebbe uguale all'incremento subito, durante questo intervallo, dalla forza viva della massa puntiforme in movimento [63].

Come traguardo di tutte queste deduzioni meccaniche appare, tanto per Poncelet che per Coriolis[64], l'acquisizione di una formula che dovrebbe esprimere nel modo più generale i processi energetici nelle macchine e che dovrebbe naturalmente risultare dalla generalizzazione del principio applicato al singolo punto materiale. Per Poncelet questa formula generale per le macchine ha il seguente aspetto:

L'espressione a sinistra dell'uguale rappresenta, secondo Poncelet, l'incremento della forza viva, il cosiddetto lavoro dell'inerzia; con F df egli indica la quantità d'azione delle forze motrici le quali sarebbero destinate a produrre lavoro e vincere le resistenze, con R dr la quantità d'azione delle resistenze nocive, da ricondursi in modo particolare all'attrito, all'adesione ed alla rigidità delle funi; Q dq è, per Poncelet, il lavoro delle parti finali della macchina, m g il peso delle singole molecole della macchina, +/- dh la componente verticale del loro moto in un elemento di tempo arbitrario[65].

La formula di Poncelet coincide sostanzialmente con quella ottenuta da Coriolis. Questi indica con Tm la quantità di lavoro delle forze motrici, con Tr la quantità di lavoro consumata dalle resistenze esterne e per l'attrito prodotto dai corpi; con Tf egli intende la quantità di lavoro perduta per l'attrito interno delle macchine e con Tc quella perduta per gli urti. Allora, se [[omega]] è la velocità di una qualsiasi molecola del sistema, p il suo peso e [[omega]]0 la sua velocità iniziale, vale, secondo Coriolis, per il bilancio energetico in ogni macchina, la equazione:

Tuttavia, sotto particolari condizioni questa formula ammette, secondo Coriolis, ancora alcune semplificazioni. Così, se si considera un moto di più lunga durata la differenza tra i due termini a destra nell'equazione diventa piccola rispetto alle altre quantità di lavoro, e la formula originaria assumerebbe allora l'aspetto più semplice[66]:

Gli sforzi, densi di successo, della scuola francese, per edificare la meccanica tecnica su fondamenti energetici, rammentano sotto molti aspetti la prima, precoce fioritura dell'energetica, che si riallaccia particolarmente ai nomi di Leibniz e Johann Bernoulli. Come questi ricercatori subordinarono tutte le altre leggi fisiche al principio della conservazione della forza viva, quale sommo principio della scienza della natura, così, nell'edificio dottrinario dei tecnici francesi il principio della trasmissione del lavoro appare, nelle sue diverse formulazioni, contemporaneamente fondamento e coronamento di tutte le ricerche. Il principio della trasmissione del lavoro contiene in sè, come rileva Poncelet nell'introduzione alla sua meccanica industriale, in una forma particolarmente appropriata per le applicazioni tecniche, tutte le leggi che si riferiscono alle interazioni tra le forze. Il principio appare come un assioma, il quale si rende pienamente evidente da se stesso, e la cui dimostrazione appare superflua a chi abbia afferrato appieno il concetto di lavoro e gli sia chiaro che il lavoro, misurato in unità determinate, rappresenti la vera espressione dell'attività delle forze[67].

Come dato originario appare invero ai tecnici francesi non la forza viva, come per Leibniz e Johann Bernoulli, bensì il lavoro stesso; essi scorgono in esso il vero substrato di tutte le trasformazioni e variazioni che apparirebbero alla nostra percezione come eventi meccanici. Alla forza viva tocca, nel loro sistema, accanto al lavoro solo un ruolo secondario; la forza viva, nell'opinione dei tecnici francesi, rappresenta solo un prodotto di trasformazione del lavoro; essa ne è la sua forma latente, per questa ragione Coriolis ritiene di poter indicare il prodotto della massa per il semiquadrato della velocità come il lavoro racchiuso e disponibile in un corpo[68]. Ma la trasformazione delle diverse forme di lavoro si compie sotto l'influsso dell'inerzia. L'inerzia dei corpi serve, come illustra Poncelet, ad immagazzinare il lavoro delle forze motrici, trasformandole in forza viva, per poi farlo ricomparire completamente quando la forza viva incontra delle resistenze, attraverso le quali essa viene distrutta[69],[70].

Quindi, se su un sistema di punti materiali agiscono delle forze motrici, allora il lavoro, come insegna Coriolis, prodotto dalle forze motrici durante tutta la durata del moto, appare completamente trasferito, ovvero "trasmesso" sui punti materiali che hanno provocato le forze resistenti (precisamente le forze d'inerzia)[71,] e questo è il vero motivo per cui Coriolis ha dato al suo teorema il nome, subito adottato universalmente, di principio di trasmissione del lavoro.

Come Johann Bernoulli[72] anche Coriolis ha già accennato in talune idee ad una concezione sostanziale dell'energia; proprio il concetto, così familiare alla fisica moderna, di una migrazione o trasferimento dell'energia è stato già sviluppato da Coriolis in modo molto suggestivo. Egli confronta la trasmissione del lavoro mediante le macchine con la corrente di un liquido, che passando da un corpo all'altro si propagherebbe attraverso i punti di contatto. Quando un singolo corpo ne urta parecchi altri questo fluido si dividerebbe per così dire in molti rivoletti e, viceversa, esso si ricostituirebbe dalla riunione dei singoli rivoletti quando parecchi corpi ne urtano uno solo. Il fluido potrebbe altresì accumularsi in corpi singoli e rimanere immagazzinato in essi finché non gli venga offerta un'occasione per propagarsi. Questo fluido immagazzinato, questo lavoro di riserva, non sarebbe altro che la forza viva. I corpi in moto, riuniti in un sistema entro una macchina, formano quindi, per Coriolis, in seguito alla loro disposizione, per così dire, un canale, attraverso il quale il lavoro può nel modo più completo trasferirsi, scorrendo, verso i punti nei quali vi è necessità di esso[73].

Che poi al lavoro si debba attribuire anche l'importante proprietà della non creabilità, allo stesso modo come già Leibniz ed i suoi seguaci l'avevano assegnata alla forza viva, risultava di per sè completamente dalla concezione che i tecnici francesi avevano dell'essenza del lavoro. Il lavoro rappresenta, come illustra Coriolis, una quantità la quale non si può aumentare attraverso l'impiego delle macchine; infatti queste potrebbero variare solo il valore della forza, o del percorso, la distribuzione oppure la direzione delle forze, ma mai aumentare la quantità di lavoro[74]. Comunque, Coriolis non ritenne di poter affermare con altrettanta certezza l'indistruttibilità del lavoro; infatti egli generalmente considerava solo quei processi nelle macchine per i quali, in conseguenza dell'attrito e di altre circostanze, l'energia meccanica si trasforma in altra di diverso genere, senza che, tuttavia, il caso inverso si verifichi. Ma Coriolis pone espressamente in rilievo che la perdita di lavoro nelle macchine sarebbe tanto più piccola quanto minore fosse l'attrito, e quindi, qualora si avesse a che fare con macchine prive di attrito, si potrebbe considerare il lavoro come una grandezza indistruttibile[75]. Poncelet ha cercato di risolvere tutte queste difficoltà mediante l'ipotesi, formulata da Leibniz, di un'energia molecolar-meccanica, per poter assumere l'indistruttibilità e così pure la non-creabilità come una proprietà generale del lavoro. Le forze d'inerzia riprodurrebbero completamente e senza alcuna diminuzione il lavoro speso per il loro sviluppo ed immagazzinato nei corpi; se però una parte di lavoro viene utilizzata per altre prestazioni, diverse da quelle di fatto richieste, questa parte invero non sarebbe più da prendere in considerazione per l'effetto utile delle macchine [76].

L'impiego generale del concetto di lavoro nella meccanica tecnica rese naturalmente necessaria la scelta di una misura esatta del lavoro, quindi soprattutto la definizione di una determinata unità di lavoro. Ora, siccome il sollevamento di un peso ad una determinata altezza era indicato come il più semplice esempio di lavoro[77], così ben presto anche i fisici misurarono i lavori mediante il prodotto di un peso (o di una forza) per una lunghezza. Per lungo tempo da allora venne usata come unità la quantità di lavoro necessaria per sollevare 1 m3 di acqua, ovvero 1000 kg all'altezza di 1 m. Coulomb adottava questa unità già in un trattato apparso nel 1797 [sic! n.d.t.][78]. Hachette, più tardi, denominò questa quantità una "grande unità dinamica" (grande unité dynamique)79. Coriolis introdusse per essa il termine Dynamode[8] , Sadi Carnot ed altri usarono per essa il nome Dynamie[81]. L'unità oggi usuale del Kilogrammo-metro, pienamente adottata anche da Poncelet[82], è stata introdotta in fisica da Navier[83]. Come unità di effetto, ossia del lavoro riferito all'unità di tempo, era già dal XVIII secolo in uso la "potenza del cavallo", [il cavallo-vapore n.d.t.] introdotta da Watt. Dupin propose come unità di effetto una "Dyname", cioè l'effetto che si otterrebbe se nel corso di un giorno astronomico 1000 m3 di acqua venissero sollevati all 'altezza di 1 m[84],[85].

Le ricerche dei tecnici francesi rimasero ancora del tutto limitate all'ambito della meccanica. Solo nell'epoca successiva ai lavori fondamentali di Mayer e Joule si estese il campo dell'energetica matematica. Nell'anno 1847 Hermann von Helmholtz, nel suo trattato Sulla conservazione della forza[86] tentò per la prima volta di elaborare matematicamente i risultati della ricerca empirica degli ultimi anni. Helmholtz, nel suo trattato, ha cercato dapprima di formulare la legge della conservazione della forza meccanica e di ricavarla per via deduttiva dal principio dell'impossibilità di un perpetuum mobile[87]. Anche se poi negli anni successivi venne riconosciuta l'insostenibilità di questa derivazione[88], più tardi ammessa anche dallo stesso Helmholtz, tuttavia la validità del lavoro risiede nel fatto che Helmholtz in esso ha per primo, coll'utilizzo di numerosi risultati sperimentali, esposto in maniera esattamente matematica l'equivalenza dell'energia meccanica colle altre forme di energia. Nello scritto Sulla conservazione della forza il metodo matematico-teoretico trovò per la prima volta la sua applicazione in modo unitario in tutto il campo della fisica, e perciò questo trattato costituisce una delle più importanti pietre miliari non solo nella storia dell'energetica ma anche e soprattutto nella storia della fisica.