Nello stesso palazzo costruito da Teodorico a Pavia si insediarono i re longobardi e Pavia divenne saldamente capitale del regno per circa duecento anni. Questo periodo, ancor più che il secolo precedente, segnò una rottura con il mondo classico; lo stesso territorio italiano e la struttura del popolo longobardo erano caratterizzati da profonde divisioni. Dopo un iniziale periodo in cui i documenti storici, i resti archeologici, le tradizioni linguistiche e giuridiche, sembrano scomparire, solo lentamente si affermò un progredire della società longobarda verso nuove forme di unità statale, giuridica e religiosa.
Questo lento progredire fu intralciato dalla frammentazione interna del potere in mano ai duchi e dalle relazioni esterne ostili da un parte con l’Impero di Bisanzio e dall’altra con il papato e il regno dei Franchi.
Dal punto di vista giuridico, economico, monetario questo periodo presentò un iniziale disinteresse dell’autorità statale per i fatti monetari; sembra quasi che la moneta abbia perso il suo ruolo economico quale mezzo di scambio e serva ad altri usi, così come si diffusero altre forme di pagamento che non facevano uso di denaro monetato. L’economia e gli scambi di basso livello si ridussero notevolmente; dove sopravvivevano si concentrarono non più nelle città, ma spesso in sedi monastiche o si mantennero al livello di scambi internazionali di beni di lusso o forti somme di solidi d’oro.
Pavia traeva vantaggio dalla sua posizione di sede regia sulla via fluviale padana, lungo la quale rimase più vivace l’attività produttiva e il commercio. Quando i re longobardi presero in mano la questione monetaria, il sistema era legato alla moneta d’oro dell’Impero d’oriente, emessa ancora in Italia nelle zecche imperiali di Ravenna e Roma.
Si quis sine iussionem regis aurum figuraverit aut moneta confinxerit, manus ei incidatur.
(Se uno senza l’ordine del re contrassegna l’oro o fabbrica moneta, gli sia tagliata la mano.)
Editto di Rotari capitolo 242
Queste due brevi linee nel contesto del corpo giuridico fatto compilare e mettere per iscritto dal re Rotari nel 643 suscitano numerose riflessioni. La formula aurum figuraverit ha dato luogo a più interpretazioni secondo le quali l’attività dell’orefice era assimilata a quella del monetiere. In effetti fra i Longobardi le monete sembrano avere inizialmente un valore ornamentale o magico.
L’attività del monetiere venne posta sotto il controllo statale attraverso l’ordine del re, non direttamente in una zecca statale come era in età romana. La concessione del re legalizzava l’attività di coniazione, che poteva quindi essere esercitata in luoghi diversi e da vari soggetti. La legge puniva sia la falsificazione di moneta, sia la libera coniazione: anche una moneta di peso adeguato e di buon contenuto di metallo fino non é legale se non ha l’approvazione del re. Si riafferma il principio classico per cui la moneta é espressione dell’autorità.
Il reato punito in questo capitolo é di lesa maestà, come nel successivo capitolo 243 sulla falsificazione di documenti. Questo capitolo dell’Editto afferma il monopolio regale sulle entrate provenienti dalla coniazione e va compreso con il capitolo relativo alla raccolta di metallo dai fiumi auriferi, in cui si ribadisce la pertinenza al fisco di tale forma di entrate.
Il taglio della mano, che sembra una pratica barbara, non faceva parte della tradizione germanica, ma pare rispecchiare la codifica di una consuetudine del basso impero fatta dall’imperatore Eraclio in età di poco precedente l’Editto. Questa stessa forma di punizione divenne comune nel diritto medievale e si ritrova nel testo delle Honorantie civitatis Papie (Sezioni 2 e 6).
Tranne una emissione in bronzo, le principali monete dei Longobardi sono le monete in oro e queste piccolissime monete di argento di peso progressivamente ridotto nel VII sec. a una media di 0,20 grammi. Questo sistema bimetallico si inseriva nella tradizione romano-bizantina di pesi e misure monetali. Il gruppo di monete di argento di questo tipo, conosciuto da un ripostiglio consistente da Biella e alcuni ritrovamenti in Corsica e Sardegna, é attribuito al periodo da Pertarito, che secondo un uso bizantino, non longobardo, si associò al trono il figlio Cuniperto, a Liutprando
1) Moneta in argento di Pertarito, g. 0,18
Diritto: La riforma della moneta operata da Cuniperto riflette la politica di questo re in altri campi, militare e religioso, volta ad affermare il primato del re sui duchi e un principio di unità nazionale, anche nei confronti dell’Impero di Bisanzio. Pose il proprio nome sulle monete d’oro, delle quali aumentò il contenuto di metallo fino al 94-99%, portandolo a pari con la moneta bizantina. La sede della zecca non viene identificata sulle monete di Pertarito e Cuniperto, ma si attribuiscono a Pavia, in quanto capitale del regno.
Rovescio: La scelta di raffigurare San Michele riflette aspetti politici e religiosi; l’arcangelo era particolarmente venerato dai Longobardi anche prima della loro conversione al cattolicesimo per le sue virtù guerriere. A San Michele era dedicato un santuario sul Gargano di importanza nazionale, al di sopra delle divisioni territoriali fra Longobardia padana e ducati di Spoleto e Benevento nell’Italia meridionale.
Eppure questa rappresentazione é una copia del tipo della Vittoria alata che tiene in mano una lunga croce, di tradizione imperiale, una iconografia adottata in alcune coniazioni dello stesso Cuniperto prima del tipo del San Michele.
2) Moneta in oro (tremisse) di Cuniperto, g. 1.39